Al tramontare del Cinquecento, Caravaggio montò la sua sanguinaria testa di Medusa su uno scudo di pioppo offrendola al cardinale Francesco Maria del Monte, il quale doveva certo avere gusti singolari in fatto di doni. Imprigionata nello stesso specchio convesso che permise a Perseo nel mito di ucciderla, la grottesca Gorgone pare urlare ancora oggi nelle sale degli Uffizi, ed è difficile non darle ascolto. Riletta, infatti, con una suggestione del tutto novecentesca, la sua drammatica decapitazione appare come un gesto risolutivo: il mostro che tutto pietrifica viene decollato, il suo capo separato dal corpo con un taglio netto, liberandoci, una volta per tutte, da quello che la testa metaforicamente rappresenta: cervello, logica, senno. Lo sguardo di Medusa impietrisce e, come il pensiero eccessivamente razionale e calcolatore, fossilizza la realtà. Liberarsi di Medusa, come ha fatto Perseo, come ha fatto Caravaggio, equivale oggi a sbarazzarsi di schemi, intellettualismi e compassate categorie. Spinge a slegarsi da uno sguardo di pietra, immobile e paralizzante.
Ma c’è di più. Il gesto di Perseo racconta anche qualcosa che, nel panorama contemporaneo in equilibrio tra neuroscienze e medicalizzazione, pare ancor più rivelatore. Il mito narra, con una precisione da chirurgo, come il sangue sgorgato dalla terribile Medusa non fosse tutto uguale: dalla vena sinistra della testa di serpenti fuoriusciva un veleno mortale, mentre dalla parte destra un siero magico, capace di resuscitare i morti. Questa dicotomia tutta vascolare fra destra e sinistra fa assumere al mito classico un significato suggestivo alla luce della recente neuropsicologia. Il sangue che sgorga dall’emisfero sinistro, area deputata al calcolo e alla logica, era considerato velenoso, mentre quello del lato destro -immaginativo, artistico e creativo- dal potere salvifico. Che un tipo impulsivo e incline a qualche ira di troppo come il Caravaggio sapesse cosa potevano significare quei copiosi fiotti di sangue? Non ci è dato conoscerlo, ma il mito della Gorgone può diventare così emblema della straordinaria dicotomia che caratterizza il nostro cervello a livello fisiologico; il suo sistema venoso si fa metafora del dissidio interiore tra raziocinio e istinto, calcolo e impulso, apollineo e dionisiaco. La testa di Medusa non è, allora, solo rigido intelletto ma rivela, se aperta con coraggio e un pizzico di ossessione, la nostra stessa, speculare, complessità. Dietro lo sguardo pietrificante, si può celare un miracoloso sangue vitale.
La Medusa di Caravaggio diventa così una creatura mostruosa e al contempo neuro anatomicamente umana. Il suo mito, riletto attraverso questa lente interpretativa neuroanatomica, può essere classico e scientifico allo stesso tempo; la sua testa racconta sia di fervida immaginazione che di logica. Spinge a lasciarsi andare alla prima e al suo potere rinvigorente, a dissezionare per scoprire l’emisfero destro e le sue potenzialità creative. Il suo urlo, seppur costretto in un limitante cerchio di legno, parla di arte e di scienza. E di come nascano entrambe dallo stesso misterioso capo.
Viviamo in circostanze dominate dall’emisfero sinistro e da quello che, stando al mito di Medusa, era scientifico veleno. Immersi in iper-tecnologie, vaccini a m-RNA e big data, attingere alla vena destra, quella in cui scorre il mitico sangue creativo, risulta spesso insignificante. Tuttavia, discipline come arte e scienza, spesso percepite come antitetiche, possono ora come non mai coesistere e, al contrario del senso comune, svilupparsi in sinergia. L’attitudine scientifica e quella artistica sono state a lungo relegate a emisferi cerebrali differenti ma non per questo inconciliabili. Sia la pratica artistica che quella scientifica possono sgorgare dalla stessa matrice creativa e sono spesso guidate da una comune urgenza: creare nuovi strumenti, nuove immagini per interpretare la realtà. Ad accomunarle anche lo stesso metodo: la ricerca. Appassionata, instancabile, e sì, anche attraverso stimoli emozionali, cerebrale.
In un momento storico in cui medicina e tecnologia impattano sempre più vita biologica e sociale, chiedersi quale spazio possa occupare l’arte è un imperativo. Arte e scienza hanno confini sempre più labili e, in particolare, arte e tecnologia, possono beneficiare l’una dell’altra fornendo strumenti interpretativi nuovi e reciproci. Come capitò agli artisti-ingegneri del Rinascimento, anche oggi l’interrelazione tra arte e tecnica caratterizza le pratiche artistiche del nostro personalissimo umanesimo digitale. Agli astrolabi, al paracadute e ai primi processi meccanizzati, gli artisti di oggi rispondono con algoritmi e intelligenze artificiali. Le loro teste non fanno distinzione tra vene sinistre e destre, calcoli matematici o impulsi espressivi, veleno o sangue immortale. Il sangue che pompano, a differenza di quello scisso della terribile Medusa, è lo stesso.
Algoritmi e ritratti in cerca d’autore.
Quando pensiamo alle intelligenze artificiali è difficile riuscire a immaginare quanto siano concretamente consustanziate nella nostra vita quotidiana. Le tecnologie più avanzate appaiono spesso come elusive ed eteree, impalpabili impalcature a sostegno di città invisibili. Un pregiudizio che accompagna anche l’arte contemporanea, tacciata frequentemente di indecifrabilità e distanza dalla realtà. Eppure, algoritmi e intelligenze influenzano la nostra routine ogni volta che utilizziamo il riconoscimento facciale per sbloccare il telefono, ascoltiamo musica nelle nostre case smart o impostiamo filtri spam e consigli per lo shopping online. Cosa possono avere a che fare con l’arte queste sequenze sistematiche? E, a maggior ragione, viene da chiedersi, apportano bellezza?
Numerosi artisti contemporanei hanno sviluppato installazioni, addirittura dipinti, con l’aiuto di algoritmi e machine learning. Un esempio fra tutti: quello del pioneristico collettivo parigino Obvious, che nel 2018 ha realizzato il primo quadro creato attraverso IA a essere venduto all’asta da Christie’s per più di 400.000 dollari. Si tratta del Portrait of Edmond de Belamy, un curioso ritratto di nobiluomo dai tratti sgranati che, come in una saga famigliare degna di Giovanni Verga o Thomas Mann, fa parte di una serie di dipinti dedicati alla raffinata famiglia de Belamy. Peccato che questi nobili francesi e la loro magione di campagna non esistano, non c’è alcuna traccia del loro passaggio negli archivi di stato francesi. Il ritratto di Edmond è stato realizzato combinando un data set di circa 13.000 opere esistenti: più di diecimila volti dipinti tra il 1300 e il 1900, realizzati da pittori reali e raffiguranti veri aristocratici del passato. La loro somma è divenuta essa stessa il ritratto di un personaggio immaginario quanto verosimile. Restano i dilemmi: può un’opera d’arte non progettata dalla mente e mano umana essere considerata autenticamente creativa? Si può parlare di estetica, se prodotta da algoritmi? Si può insegnare un gesto artistico a una macchina, digitando un set di regole tramandabili? E chi è effettivamente l’autore di questo ritratto, se ammettiamo possa essercene uno?
Può un’opera d’arte non progettata dalla mente e mano umana essere considerata autenticamente creativa?
Arte e scienza se combinate lasciano dietro di sé spazi bianchi. Un solco tra due emisferi cerebrali che aspetta solo di essere riempito con un approccio votato all’investigazione e alla novità. Un occhio che nei dati riesce a cogliere una storia nuova da raccontare. Quadri creati con algoritmi e da programmatori, installazioni digitali e interattive che riflettono su sé stesse, transumani performers della robotic art che affrontano il rapporto tra corpo umano e macchina, fino ad arrivare alla recente cryptoart, sono solo alcune delle declinazioni artistiche che la tecnologia può assumere. Per apprezzarle urge superare lo sguardo di pietra, che induce a diffidare ora della ragionevolezza della scienza, ora della presunta irrazionalità dell’arte, in un pendolo continuo di sterili scissioni. Il fine è dipingere una Medusa che non sa più che farsene di decollazioni e dicotomie. Libera, finalmente, dai margini di un tondo scudo di legno.