– A Parigi lavoravo come arredatore d’interni. Tra clienti e altri impegni, non avevo tempo per dedicarmi a nient’altro. Se avessi voluto compare casa in città, probabilmente avrei dovuto continuare a lavorare a quei ritmi per i prossimi vent’anni. Qui, affitto camere ai turisti, continuo a lavorare sulla ristrutturazione del B&B e organizzo esposizioni di artisti locali.
Thomas, 27enne cresciuto nella capitale francese, è uno dei giovani che hanno deciso di abbandonare la vita in città per spostarsi in zone rurali. I motivi dietro questa scelta sono i più vari, dal costo della vita sempre più elevato, alla possibilità di lavorare da remoto anche nelle aree più isolate; ma spesso chi intraprende questa scelta è alla ricerca di uno stile di vita più lento, un modo per riavvicinarsi ai ritmi naturali dell’uomo. Rallentare e rientrare in possesso del proprio tempo sembra ormai essere diventata una sfida generazionale. Questo è specialmente vero per tutti i lavoratori del mondo dell’arte e della cultura, spesso costretti a ripiegare su altre mansioni per fare fronte alle spese. Non è un caso che sempre più artisti scelgano piccoli centri o zone rurali per dedicarsi al proprio lavoro. Qui, si ha spesso il tempo e le risorse per occuparsi a più attività in contemporanea, rendendo il vivere di cultura più sostenibile. In queste realtà il musicista diventa anche locandiere, l’apicoltore scrittore e lo scultore guida il bus scolastico. Non significa scendere a patti, ma piuttosto scegliere quando e come dedicarsi alla propria arte, avendo la libertà di creare per il gusto di farlo, piuttosto che per la necessità di sopravvivere.
– La più grande differenza sta nel tempo che si ha a disposizione – continua Thomas – Quando mi sono trasferito qui da Parigi non avevo alcuna intenzione di passare dodici mesi all’anno in un villaggio di trecento anime. Ero sicuro che avrei faticato a trovare occasioni per socializzare e mi sarebbe mancata l’infinita offerta culturale ai cui ero abituato. Tuttavia, dopo i primi mesi di assestamento, mi trovai davanti a una realtà completamente differente. L’intera area brulica di musicisti e artisti; quando si riescono a portare eventi che normalmente vengono organizzano solo nelle città più grandi, sono tutti entusiasti.

Se per anni la città ha fatto da catalizzatore per arte e cultura, il posto in cui vivere se si aspirava a una carriera nell’industria culturale, ora parte di quelle piazze si sono trasferite online, rendendo gli artisti liberi di condividere e scambiare idee in qualsiasi posto si trovino. Durante la pandemia abbiamo visto questo cambiamento da vicino, assistendo alla nascita e alla diffusione di luoghi ed eventi virtuali. Anche se non vanno a sostituire l’importanza della presenza dell’arte sul territorio, possono tuttavia aiutare a distribuirla in comunità più ristrette ma connesse tra loro. Se quindi è possibile lavorare e fare parte della scena culturale in qualsiasi posto ci si trovi, perché rimanere incastrati in un monolocale del centro? Chi sceglie di vivere a contatto con la natura ne abbraccia i ritmi e le difficoltà, lasciando una vita di comfort alla ricerca di qualcosa di più primordiale e semplice. Si tratta di desiderare meno, o meglio, desiderare altro. Seppur in aumento, il fenomeno non è certo nuovo. Le stesse problematiche di oggi turbavano già H. D. Thoreau oltre centocinquanta anni fa, spingendolo a lasciare la sua casa a Concord, Massachusetts, per costruirsi una capanna di legno sulle rive dell’ormai celebre lago Walden, in cui passò due anni, due mesi e due giorni.
Non è un caso che sempre più artisti scelgano piccoli centri o zone rurali per dedicarsi al proprio lavoro. Qui, si ha spesso il tempo e le risorse per occuparsi a più attività in contemporanea, rendendo il vivere di cultura più sostenibile.
Spesso indicato come padre del pensiero ambientalista, lo scrittore e filosofo Thoreau pensava che la società moderna era già irrimediabilmente malata e tossica, fatta di “una maggioranza di uomini che vivono un’esistenza di tranquilla disperazione.” Sul lago Walden, Thoreau non deve più lavorare tutti i giorni fino a sera, ma come riportato nel libro che ne testimonia l’esperienza “Walden – ovvero vita nei boschi,” gli bastano due giorni di lavoro a settimana per procurasi tutto quello di cui ha bisogno. Il resto del tempo viene occupato da passeggiate, cura dell’orto, manutenzione della casa, e sopratutto, dalla scrittura.

In Italia, lo scrittore premio Strega Paolo Cognetti sembra avere tratto ispirazione dall’esperienza dello scrittore americano. Dopo aver passato i suoi vent’anni tra Milano, Torino e molteplici viaggi a New York e in Nepal, all’età di trent’anni si trasferisce in una baita a 1800 m in Val d’Ayas. Come racconta l’autore, il suo è un ritorno alla montagna, un modo per provarla a vivere come qualcuno del posto, piuttosto che da villeggiante. Dopo un periodo in cui lavora come cuoco in un ristorante del posto, si dedica interamente alla scrittura, trovando in quei luoghi l’ispirazione per i suoi libri. Tra quelle valli ambienta il romanzo pluripremiato “Le otto montagne” e il resoconto della sua esperienza in alta montagna “Il ragazzo selvatico“.
Quello che inizia come un esperimento finisce per diventare la sua vita per la maggior parte dell’anno. In inverno, Cognetti torna a Milano, riuscendo a far coesistere quelle che all’apparenza sembrano due vite completamente diverse. E lo sono, come conferma intervistato per Il grande trasloco: “Il segreto è riuscire a portare un po’ di montagna in città, cercare di mantenere le buone abitudini e applicare quanto si è imparato anche a Milano, per quanto possibile.”
Dopo quattro anni di lavoro, la baita in cui si era inizialmente stabilito è diventata un rifugio e centro culturale alpino, dove lo scrittore propone diverse attività e organizza eventi, nella speranza di facilitare l’accesso alla cultura in valle e, a modo suo, ricambiare ciò che la montagna gli ha dato in tutti questi anni.
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