Tutto comincia a San Francisco, in un appartamento con le pareti incrostate da una vecchia carta da parati. È la stanza tutta per sé in Lyon Street dove Rebecca Solnit si è trasferita a 19 anni, in cui studia il mondo e si ripara da esso traslando poi tutto su carta.
In Ricordi della mia inesistenza, il memorial uscito quest’anno, una delle prime immagini che ci regala in quella casa è emblematica. Inquadra la sua scrivania, un grazioso mobile vittoriano, il regalo di un’amica che è quasi morta dissanguata dopo essere stata pugnalata dall’ex fidanzato.
Una sopravvissuta che qualcuno ha cercato di far tacere e che invece ha raccontato la sua storia dando anche a lei (che ancora non era una scrittrice) una tribuna per la sua voce.
Proprio su quella scrivania sono state scritte milioni di parole, molte delle quali denunciano la misoginia nelle sue varie forme, dagli insulti al femminicidio.
Negli ultimi 35 anni la scrittrice americana ha pubblicato una ventina di libri, tra cui il saggio del 2008, Gli uomini mi spiegano le cose, che ha reso popolare il termine mansplaining, ossia la spiegazione non richiesta e paternalistica fatta da degli uomini a delle donne.
L’ultimo libro però è molto più di un manifesto femminista, Solnit spiega come la scrittura è stata fondamentale per ritrovare il suo io e vincere l’autonegazione. Attraverso le sue parole ci incoraggia poi a dar fiato alla nostra voce.
Descrive la sua formazione come scrittrice e come femminista nella San Francisco degli anni ’80, indagando le violenza di genere e criticando l’esclusione delle donne dalle arene culturali. Povera ma piena di speranza, comincia a contrastare la violenza che vede intorno a sé e alle altre. Inala aria, comincia a soffiare fuori nuove parole.
Racconta il terrore di camminare per le strade nel timore di uno stupro ma anche di come la violenza venisse erotizzata dai media e dall’arte dell’epoca.
Guardandosi indietro, vede tutto questo come la conseguenza dell’afonia sociale, la mancanza di voce che era – ed è ancora – la condizione di molte donne.
Solnit non rimarca solo le negatività ma si sofferma anche a sottolineare chi o cosa ha aiutato la sua voce ad emergere: il sostegno degli amici, l’apertura degli ambienti queer, l’energia della musica punk.
La scrittrice crede nel metodo induttivo, dal particolare al generale, parte dalle sue storie personali o dai fatti estratti dalle cronache dei giornali per arrivare a un significato universale. è nella collettività che possiamo essere dimenticati o dispersi. Come lei che si è sentita fragile, stretta nella sua vita da vespa, che ha cercato di sparire, di farsi ancora più piccola, prima di levarsi per se stessa e per gli altri.
È la storia di come è diventata una scrittrice ma anche una voce autorevole e leggendo le sue memorie viene quasi da pensare che il coraggio l’abbia trovato nel denunciare il male che ha visto fare più che nel rivendicare le violenze subite.
Solnit attraverso i suoi ricordi spiega l’impatto della violenza, sia reale che potenziale, sulla psiche delle donne, come nel caso del gaslighting – la manipolazione che spesso si verifica quando le donne parlano e che porta le vittime a dubitare della propria percezione, giudizio o memoria. Il trattamento misogino che documenta include fischi, cat-calling e pedinamenti da estranei, ma anche sputi e aggressioni.
Demarca il dolore giornalisticamente ma il suo è un trattato di speranza.
Le parole possono essere piccoli fuochi dai quali trarre conforto per questo Solnit ha deciso di usare la sua vita come se fosse un case study. Lo fa per affrontare questioni di cui ha scritto in precedenza ma in modi molto più obiettivi, polemici, editoriali.
Racconta le sue esperienze di violenza che non sono eccezionali ma ordinarie perché metà della terra è lastricata con la paura e il dolore delle donne, o meglio con la loro negazione, e finché le storie che stanno sotto non vedranno la luce del sole, questo non cambierà.
Il suo libro, quindi, non è un classico memoriale ma più un manifesto. Potremmo dire che l’inesistenza può essere un dato di fatto, una condanna esterna ma anche uno stato mentale da cui liberarsi. Il male da condannare non è solo quello della violenza ma anche il silenzio che copre i carnefici.
Il suo libro non è un classico memoriale ma più un manifesto. Potremmo dire che l’inesistenza può essere un dato di fatto, una condanna esterna ma anche uno stato mentale da cui liberarsi.
Parlare a voce alta è un atto di resistenza e sebbene le ferite siano sempre dolorosissime quanto personali la risposta per Solnit deve essere globale, grazie al cambiamento epocale e pubblico portato dal femminismo.
Parlare però, è molto di più che possedere semplicemente la capacità animale di emettere suoni, per poter far parte del cambiamento serve udibilità (le persone possono sentirti), credibilità (le persone sono disposte a crederti) e conseguenze (le tue parole hanno un effetto).
Come combattere allora la sensazione di inesistenza?
Trovare la propria voce, avere una voce, entrare a far parte della vita pubblica, richiede una profonda solitudine, esistere in altri regni, tempi e vite, cioè leggere.
La virgola è la porta girevole del pensiero.
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