Chissà cosa avrebbe dipinto Frida se l’incidente avuto a diciotto anni non avesse condizionato la sua intera esistenza. Come sarebbe cresciuto Leopardi in un contesto diverso da quello di Recanati e se Matisse avrebbe scoperto ugualmente l’amore per la pittura anche senza essere costretto a letto da un malessere. Se guardiamo poi un po’ più vicino a noi, è facile constatare con quale intensità la sofferenza del manicomio ha alimentato di sentimento le poesie di Alda Merini così come le difficoltà della malattia il genio di Ezio Bosso.
Nessuno di loro desiderava doversi confrontare con tali eventi, eppure in una prospettiva futura per ciascuno si sono rivelati essere le più significative opportunità di crescita umana e professionale, dimostrando che nel confronto con la creatività i vincoli manifestano la loro altra natura trasformandosi da limiti in possibilità. Per prima quella di intraprendere un processo evolutivo di carattere sperimentale. Perché sì, un approccio dogmatico alla creatività quale espressione di libertà potrebbe illuderci che l’ispirazione trova terreno fertile solo in una realtà priva di condizionamenti e costrizioni. Invece no, ipotesi errata. Lo dicono i fatti e anche la scienza.
Avere troppo impigrisce e rallenta la reattività agli input esterni, mentre le limitazioni stimolano il cervello, aumentano il livello di attenzione e potenziano il coraggio di osare
Nel 2015 la Johns Hopkins University ha presentato una ricerca attraverso la quale spiega come la scarsità ha il potere di influenzare l’inventiva. Insomma, avere troppo impigrisce e rallenta la reattività agli input esterni mentre le limitazioni stimolano il cervello, aumentano il livello di attenzione e potenziano il coraggio di osare portando l’uomo a considerare ciò che altrimenti rimarrebbe nascosto dalle certezze. Una condizione che accomuna tante persone. Può capitare a chiunque di trovarsi costretti a gestire imprevisti e valutare alternative, di non poter agire come desiderato o, semplicemente, di dover fare quello sforzo in più che costringe a rompere gli schemi mentali. Gli unici reali limiti per la nostra maturità espressiva. Ma assumendo un atteggiamento accogliente nei confronti del limite – innanzitutto accettandolo – qualcosa di inaspettato può accadere. La flessibilità, prerogativa dell’imprevedibile, si sostituisce alla rigidità del già previsto rendendo la creatività un esercizio di scoperta di tutte le possibilità che ognuno di noi racchiude in sé.
Lo sa bene Geoge Perec che a conclusione del libro La Disparition, scritto nel 1969 e pubblicato in italiano con il titolo La Scomparsa nel 1995, spiega le ragioni della scelta insolita di rinunciare all’uso della lettera ‘e’ nel testo, dichiarando in questo modo la sua piena accettazione del limite come vettore di ingegno creativo.
“Cosa mi ha spinto a farlo? Più motivazioni di sicuro, ma, voglio dirlo, innanzitutto fu il caso, in quanto tutto iniziò da una sfida. Poi ho cominciato a provarvi gusto. Si formò così scritto sul foglio, parola dopo parola, frutto di una norma tanto più rigida quanto più significativa agli occhi di chi non la sa, un romanzo di cui, malgrado la sua bizzarria, fui subito abbastanza soddisfatto. Poi, soprattutto, riuscivo in tal modo a dar sfogo a un mio istinto primario, connotato d’infantilità (o d’infantilismo): il mio gusto, la mia mania, la mia smania di far uso di saturazioni, imitazioni, citazioni, traduzioni, automatismi”.
In linea con il principio adottato dai membri della francese OuLiPo di individuare e imporsi obblighi di scrittura sempre diversi in modo da stimolare prodotti letterari nuovi nei contenuti e innovativi nella struttura del linguaggio, anziché cedere davanti al limite Perec riesce a comprenderne il potenziale fino a renderlo strumento di unicità dello stile adottato. Da lì inizia un processo di selezione affidato all’artificio retorico del lipogramma con cui l’autore si costringe a cercare alternative in grado di sostituire le parole contenenti la lettera abolita con altre aventi forma diversa ma uguale significato. Una rinuncia che anziché limitare l’opera ne moltiplica le possibilità di sviluppo andando a recuperare dall’oblio vocaboli dimenticati, forzando Perec a riconsiderarli attraverso una pratica selettiva basata sulla profonda comprensione dei loro significati e su una attenta valutazione di come possono dialogare all’interno del testo. Il risultato è una trama dal ritmo talmente fitto e incalzante da riuscire a gestire la complessità provocata dalla sovrapposizione – spesso caotica e confusa – di argomenti, personaggi, situazioni ed epoche storiche dovuta alla principale esigenza di colmare una mancanza.
Processo difficile da concepire per lo scrittore tanto quanto complicato da assimilare per il lettore, ma che a entrambi stimola riflessioni utili non solo nell’ambito della letteratura. Ad esempio, invita a ragionare sul ruolo reale che possono avere presenze e assenze nella nostra vita, a valutare se quanto ci appare indispensabile è in realtà meno che necessario e può essere sostituito con qualcosa fino a quel momento sottovalutato.
Soprattutto suggerisce di adottare lo stesso ‘principio del potenziale’ sostenuto dagli scrittori dell’OuLiPo, unendo calcolo matematico e sensibilità poetica al fine di riuscire a leggere quanto esiste in potenza creativa all’interno di regole e restrizioni, così come dentro quei limiti che ci portiamo dietro in attesa di assumerci il rischio di trasformarli in opportunità.
Anna Gallo, PhD in Design e Innovazione, autrice e ghostwriter.
Il suo campo di ricerca indaga l’archivio come luogo dinamico di conoscenza.
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