Due chiacchere al “Caffè Voltaire” su precariato, scrittura e politica. Intervista a Laura Campiglio.

Ci troviamo con Laura Campiglio per parlare del suo romanzo “Caffè Voltaire” edito da Mondadori. Un libro splendido che affronta coraggiosamente il tema del lavoro precario,  prima al centro della cronaca con innumerevoli libri, film, inchieste e che poi,  e che poi  è quasi scomparso. Nella realtà dei fatti però, è aumentato tantissimo. Quindi mi chiedevo: ci siamo abituati noi, si è abituata Anna Naldini, la protagonista del tuo romanzo, siamo diventati indifferenti, è cambiata la società e fatichiamo ad accettarlo? 

Io penso che, molto banalmente, quella che era un’anomalia all’inizio del 2000, ora è diventato lo status quo. Soprattutto tra il 2000 e il 2005, era davvero difficile che un film o un libro non trattasse il tema che poi si è trasformato in normalità. A mio parere, tra l’altro, con una specie di subdolo tranello: i miei primi contratti erano cosiddetti ‘atipici’, c’erano ancora i CO-CO-CO, che sono poi diventati CO.CO.PRO ed una serie di altre sigle. Questa modalità lavorativa era stata dichiarata, a chi all’epoca aveva 19-20 anni, come una specie di gavetta. Infatti, era così che il mio primo contratto in un quotidiano locale, dove ho iniziato a scrivere, firmato quando avevo appunto 19 anni, mi era stato descritto. Nessuno di noi avrebbe mai osato lamentarsi, anzi, io mi ricordo che ero molto contenta di aver avuto la possibilità di fare esperienza, di acquisire abilità e di vedere un po’ come funzionava il mondo dove mi interessava lavorare. Nella speranza, o nella pia illusione (mi viene da dire ora con il senno di poi), che piano piano, tutti questi lavoretti che accumulavo e cambiavo così rapidamente, sarebbero diminuiti gradualmente, in una sorta di selezione naturale. Avrebbero fatto emergere quello che, come mio nonno e le generazioni precedenti alla mia chiamavano il ‘lavoro vero’, si tratta di un’entità che si scrive quasi tutta attaccata: ‘lavorovero ‘. Così non è stato, e io non sto più parlando solo di me, ma della mia generazione. Se negli ultimi quindici anni abbiamo potuto tralasciare, come dicevi tu, il tema della precarizzazione (che non riguarda più solo il precariato giovanile), ad oggi è un argomento che si imporrà in modo prepotente nelle nostre vite. Questo perché, tra i tanti cocci che la pandemia lascerà a terra e che dovremo cercare di rimettere insieme, è compresa anche questa tematica.  E sono contenta che questo libro, che naturalmente non dà risposte perché io per prima non ne possiedo, abbia contribuito ad affrontare  nuovamente questo tema.

Anna Naldini, la protagonista, scrive per due giornali: uno di destra e uno di sinistra, e parla attraverso le sue rubriche di politica. Inevitabilmente, sulla scena compaiono dei personaggi politici, ovviamente non con i nomi reali, ma che forse possono essere riconosciuti da chi segue un po’ la cronaca politica.  Però, attenzione, perché vedendoli da questa distanza, senza l’enfasi che si crea attorno ad essi, si riesce a vedere, secondo me, quasi come se recitassero, un copione già scritto. 

Sì, alla fine non è un po’ il mestiere del politico?

Infatti, ma nel tuo romanzo ci rendiamo conto di quanto siano banali e prevedibili, ed è un punto di vista davvero interessante, quasi raro in Italia. Forse perché non siamo nemmeno abituati a leggere romanzi in cui la politica sia presente. Secondo te,  ci stiamo prendendo un po’ troppo sul serio, o meglio, stiamo prendendo un po’ troppo sul serio le persone sbagliate ?

No, anzi, forse per me il problema è l’inverso. Io non sto vedendo persone che prendono sul serio la politica, né persone che fanno politica e si prendono sul serio. Noi dovremmo ricordarci che la politica è un affare tremendamente serio e anche noioso, per chi lo fa e per chi lo segue. E invece mi sembra che adesso, forse anche per una questione relativa alla qualità morale delle persone che fanno politica (ma su questo ho da dire e non ho da dire, nel senso che è una cosa che pertiene a loro, pertiene al singolo), mi sembra che la cronaca politica abbia dei ritmi molto serrati e rapidi. Ritmi incalzati dai social che contribuiscono a ‘buttarla in caciara’ continuamente. In realtà la politica è una roba noiosissima, fatta di tempi lunghi, di burocrazia, di procedure standardizzate, formalizzate, che da studiare sono due palle pazzesche!

Mi sono piaciuti molto i pezzi che scriveva Anna Naldini per i due giornali. Sono completamente diversi, ma decisamente credibili. Potrebbero essere veramente scritti per qualche giornale di destra o di sinistra.

Diciamo questo, Anna Naldini non è assolutamente un’eroina senza macchia e senza paura, anzi, è un’antieroina o un’eroina disforica, se così la vogliamo chiamare. Lei si ritrova a scrivere, come stavi accennando, per due giornali: uno di estrema destra e uno di estrema sinistra, non perché l’abbia voluto, ma perché si è ritrovata, per una serie di vicissitudini, invischiata in questa situazione che mai nessun giornalista andrebbe a cercare di propria volontà, salvo essere profondamente autolesionista, materia da psichiatria. Da un punto di vista deontologico, la condotta di Anna Naldini è semplicemente inqualificabile, lei ne è consapevole e infatti questa cosa le creerà una serie di crisi interiori. Ma quello che lei fa è proporre per ogni notizia due punti di vista che, nel loro essere estremi, sono di parte in maniera dichiarata. Ho voluto metterla tra questi due fuochi. Anche i nomi dei giornali sono inventati, così come quelli dei politici, però è naturale che io stessi pensando al giornale più a destra dell’arco editoriale italiano, voce della destra più populista e verace, e il giornale più a sinistra che dà voce proprio alla sinistra radicale.

Una domanda più tecnica. Quanto tempo dedichi alla scrittura, ed in particolare, alla stesura di questo romanzo? Ovviamente tenendo in conto che è difficile fare un conteggio preciso.

Allora questo romanzo, in realtà, nasce da un’idea vecchissima che mi era venuta un sacco di anni fa. Tante persone che scrivono hanno delle idee improvvise e dicono “Ah, come sarebbe bello svilupparla” poi la mettono lì e non la toccano più. Ad un certo punto, stanca di rimandare, mi sono obbligata a dire “No basta, Campiglio, devi portare a casa questo romanzo”. Ho fatto una specie di scommessa con il Fato, con il Caso, Destino… chiamalo come vuoi. Non sfuggivo. Da qui sono passata alla ricerca di un’agenzia. Chiunque si occupi di scrittura sa quanto sia importante la figura dell’agente per muoversi nel panorama editoriale. Cercando nel Web avevo trovato il nome di quest’agenzia della quale parlavano tutti molto bene, l’agenzia di Silvia Meucci. Premessa, Silvia Meucci accetta solo dieci manoscritti al mese, che naturalmente non chiede di inviare in forma completa, ma soltanto le prime 10.000 battute. Meno di dieci pagine, proprio l’inizio, neanche il primo capitolo. Io le otto pagine le avevo, ma non tutto il resto. Però le prime otto pagine erano bellissime.
Dato che era risaputo che la selezione di Silvia Meucci fosse abbastanza severa, ho pensato “Ma dai, non mi chiamerà mai”, ma ho comunque mandato le pagine a Capodanno, perché questo form che si trova sul sito della Meucci Agency si apre solo a mezzanotte dell’ultimo giorno del mese.
La Meucci mi chiama e mi dice “Sì, interessante, mandami il resto”.  Ho avuto un piccolo mancamento, “Guardi, sto rivedendo il finale quindi mi dia altre tre, quattro settimane ”.  Per questo libro avevo poco, meno della metà, forse 40.000 battute. Credo che “Caffè Voltaire” sia più o meno 400 mila battute, per capirci. Io avevo 40 mila battute, ne avevo mandate 10.000, e il resto le ho scritte di corsa, circa in un mese e mezzo.  Infatti la prima stesura non era perfetta, ma la buona Meucci ha visto del potenziale e mi ha detto “Lavoriamo su questa”. Quindi, a parte questa tirata, da quando l’ho ripreso in mano seriamente per la stesura successiva e tutto, direi che in tutto  ci ho impiegato sei, sette mesi, che è un po’ il tempo standard.

Avevi quello stimolo in più.

No, diciamo che avevo una gran figura di merda da scansare perché spesso le deadline, le minacce e le figuracce dalle quali riuscirsi a svincolare, sono un grande propellente per farti schizzare veloce.

I miei allievi (e non solo loro), quando devono mandarmi qualcosa con una scadenza precisa sono diligentissimi, poi puntualmente, quando non hanno più la scadenza, scrivono molto meno, quasi zero. Un consiglio a chi ha in mente di scrivere un romanzo o lo sta scrivendo adesso?

Una cosa banalissima che fa parte delle competenze davvero basilari di chiunque scriva ma, devo dire, con mia grande ignominia, che è una cosa che ho scoperto di recente. Secondo me, la cosa più importante è questa: scindere, ma scindere veramente nel profondo del proprio cuore, l’idea della scrittura dall’idea dell’ispirazione. Dobbiamo, ma tutti lo sanno molto bene tranne me, dobbiamo convincerci che se noi dovessimo scrivere solo quando siamo ispirati, nessuno mai finirebbe un libro. Perché l’ispirazione è uno stato di grazia che ogni tanto ti sfiora, ma ogni tanto. E quindi, quando lo stato di grazia non ti sfiora, lì c’è il mestiere, il chiodo, un atteggiamento impiegatizio, quasi burocratico. Quindi io quello che ho imparato a fare adesso è darmi degli orari, che sono fissi, che sono sempre quelli, nei quali produco, più o meno, a seconda dei giorni, ma come ogni impiegato, come ogni persona che fa un qualunque lavoro. Dei giorni mi pesa orribilmente e i risultati non mi piacciono, dei giorni invece vado via più leggera e con meno difficoltà.
Il passo avanti l’ho fatto quando ho capito che era veramente un lavoro come un altro, un lavoro prosaico come un altro, un lavoro che a me piace tanto, ma che non è diverso dall’aggiustare le lavatrici. Non è che il tecnico che aggiusta la lavatrice ti dice “guardi che oggi non sono ispirato”,. Quello quando c’è da lavorare viene. Poi ci sarà un giorno in cui ci mette di più e uno in cui ci mette di meno. Ecco, io ho dovuto scrollarmi di dosso tutto il coté letterario che la letteratura aveva presentato sul produrre letteratura e qui c’è anche una questione di autoreferenzialità; quanti scrittori scrivono di scrittori? Anche  per via di questo cortocircuito, ero convinta che fosse un lavoro che avesse sempre a che fare con l’arte e quindi con l’ispirazione artistica. Ma la produzione artistica è diversa dall’ispirazione artistica. La produzione artistica, siccome si chiama produzione, è un lavoro, e tu devi metterti lì a farlo, anche quando non ti va. Tra l’altro, quando ho capito questa cosa ho avuto come una specie di Epifania: pensavo a tutte le invocazione alle Muse con i quali i poeti, fin dall’antichità, iniziavano. Il “Cantami, o Diva” del proemio, come a dire ,”Cantami tu, o Diva perché oggi non ho voglia”, questo era secondo me il sotto testo. Vuol dire che, fin dall’antichità, il poeta non aveva tanta voglia di mettersi lì a fare il suo sporco lavoro. Diceva “Cantami, o Diva, dammi una mano, dammi l’idea, dammi l’ispirazione che io di mio non ho voglia di farlo”, eppure, viva Dio! Loro l’hanno fatto e quindi facciamolo anche noi.

Quindi mi confermi che non scrivi con una candela accesa nelle notti di luna piena, con un bicchiere di vino in mano?!

Sì! Poi io vengo da tanti anni di giornalismo precarissimo, molto più che freelance. Tra le tante cose dei giornalisti precari, magari tanti tuoi allievi lo sanno, c’è il fatto che tu non puoi entrare in redazione, perché se utilizzi il computer della redazione allora stai facendo un lavoro che ti dovrebbe far inquadrare in un altro modo, è una questione contrattuale. Quindi i giornalisti freelance sono tutti fuori dalle redazioni con il loro portatile. Ma ben prima che esistessero gli iPad, io avevo un ASUS piccolino, rosa, da inizio del 2000. 
Quindi mi sono abituata a scrivere ovunque, al bar. Ma vedi, quando dico “scrivere al bar” il mio riferimento non è il bohémien parigino che scrive al bar, ma è la giornalista precaria che va al McDonald’s a ciucciare il Wi-Fi per mandare il pezzo in fretta. Quindi no, scrivo ovunque, in qualunque situazione.

Ti ringrazio per avermi aiutato a smontare un po’ quest’idea che sono in molti hanno. Spesso sento dire: “Però adesso non mi sento molto ispirato, adesso non mi viene nulla”. 

Ovvio che ci saranno dei giorni nei quali non sei realmente ispirato, ma sei semplicemente in buona e le cose ti vengono meglio. L’importante è obbligarsi a fare qualcosa, anche poco e di poco conto e magari fatto pure male, ma fare qualcosa tutti i giorni. “Non un giorno senza una riga”, diceva il buon Jean-Paul Sartre, che è uno degli autori più prolifici del secolo scorso su tanti ambiti: teatro, saggistica, filosofia letteratura, impegno politico e via dicendo. 

Sì, poi comunque ce ne sono altri, magari l’hanno ampliata un po’. Stephen King dice “Sei pagine al giorno”.

Cazzo, sei al giorno non ce la faccio. Abbassiamo gli standard. Basta mettersi lì insomma.

Tornando al tuo libro, mi avevi detto che sei partita da un’idea che avevi in mente da tempo. Ma era l’idea della storia o era l’idea di un personaggio in particolare? Magari di Anna Naldini o di un altro. Sei partita dicendo “Vorrei scrivere questa storia qui” oppure, “Vorrei parlare di questo personaggio”? 

Il personaggio è nato insieme all’idea, perché l’idea della quale ti accennavo è la seguente: quando avevo diciannove anni, ho iniziato a scrivere in questo quotidiano locale. Ogni mattina iniziava con la riunione di redazione, (all’epoca noi potevamo ancora andare in redazione) ed era bellissimo. Tutte le mattine la riunione iniziava facendo la rassegna stampa, non c’erano i quotidiani online, ma bensì quelli cartacei, e chi arrivava per primo raccoglieva questa gran quantità di quotidiani e la squadernava su questo tavolone. Se pensi all’azione, se tu dovessi farla oggi, io credo che ti verrebbe molto spontaneo squadernarli con un ordine ideologico. Mettevamo “Il Corriere” in mezzo, a destra c’era “Libero” che era appena arrivato, a sinistra c’era la vecchia “Unità”, “Repubblica” poi “Il Manifesto” e via dicendo.
Il capo redattore prendeva noi ragazzi, io ero al liceo, e come esercizio ci faceva prendere il quotidiano più a sinistra e quello più a destra per metterli insieme, uno affianco all’altro.
Se avete modo fatelo, prenditi “Libero” e “Il Manifesto” e mettili vicini e vedi se ti sembra lo stesso giorno, dello stesso paese. Ti sembreranno paesi diversi, epoche diverse o almeno giorni diversi; e invece sono proprio due punti di vista. Io avevo questi due quotidiani, li mettevo insieme e da lì capivo il mondo dell’informazione, ne avevo la prova plastica. Quindi questo pensiero mi è sembrato fortissimo, ho sentito la necessità di scrivere a riguardo e naturalmente quest’idea richiedeva un personaggio che fosse una giornalista, che io ho immaginato come precaria. Perché anche a me è capitato più volte di scrivere lo stesso pezzo per quotidiani diversi, anche su quotidiani importanti, era normale. Spesso quando non c’era l’inviato, il quotidiano chiamava la redazione di un quotidiano locale e diceva ‘Ci mandate uno che scriva un pezzo per noi oggi?’. Eravamo un supporto.
Così mi sono chiesta: ‘Io cosa farei se un giorno dovessi scrivere lo stesso pezzo per due testate agli antipodi? Me la caverei? Se questo doppio gioco dovesse diventare regolare, che ne sarebbe di me, della mia etica, della mia idea d’informazione e della mia idea del rispetto del lettore?’. 
Ed è un po’ il dilemma etico al quale mi piaceva sottoporre la protagonista, Anna.

Jacaranda, Randa,  porta una carica di adrenalina alla storia estremamente interessante. Da dove arriva questo personaggio? 

A Randa, Jacaranda Migliavacca dell’Onda, abbiamo affidato la linea comica, e la conosciamo così, con un’onomastica così altisonante che subito fa pensare alla classica sciura borghese. In realtà scopriamo già dall’inizio che “Jacaranda” nasce come “Jolanda Caccamo” e questo passaggio da un nome a un altro sottolinea l’ambivalenza del personaggio, la strada e il verace arrivismo della donna. 
No, io Randa non l’ho inventata. Randa l’ho romanzata parecchio, ma non l’ho inventata perché il carattere, le battute migliori e l’atteggiamento di Randa nella vita, e anche il modo di parlare, la gestualità, il modo di vestirsi è quello di mia sorella Paola che mi ha sempre detto ‘Scrivi un libro su di mÈ. E ovviamente anche Randa ti direbbe ‘Scrivi un libro su di mÈ. Il libro non è su Randa, però credo che lei sia una parte irrinunciabile di questo libro, perché lo alleggerisce parecchio. Per me era molto importante trattare di comunicazione politica e precariato, perché sono temi importanti. 
Mi interessava usare il tono della commedia brillante, della commedia sociale, che poi è un ottimo metodo d’indagine. Ma doveva essere letto con grande leggerezza, mi interessava questo, io volevo che il lettore si divertisse, volevo farli ridere. E Randa mi ha aiutata tantissimo. Tra l’altro, ti devo dire che io ho romanzato tutto, anche i nomi dei figli di Randa, che ora me li devo ricordare.

Ma no, non devi, tranquilla, c’è la privacy.

No, no, ma non sono quelli dei figli di mia sorella. Mia sorella ha avuto una vita più normale di Randa. Però la scena dell’operazione a cuore aperto, e qui non stiamo rivelando niente perché si trova all’inizio del libro, la riguarda. È la scena in cui Randa ed Anna si conoscono all’ospedale perché Randa deve subire, nonostante l’età relativamente giovane, un’operazione a cuore aperto molto importante. Randa è convinta di star per morire e così chiede ad Anna di dirle qualcosa. Anna, non sapendo che cosa dirle, risponde ‘Senti, ma vedrai che è il destino, vedrai che ti innamori del cardiochirurgo’. Ecco, questa stessa cosa è successa a mia sorella, che ora sta benissimo, ma quando era molto giovane, a ventidue anni, ha dovuto subire quest’operazione, all’improvviso. Eravamo tutti molto spaventati perché era una situazione tale da destare preoccupazione. E lei mi ha detto ‘Dimmi qualcosa’ e io le ho detto, non sapendo cosa dirle (perché lei stava firmando il consenso informato che solitamente prospetta la situazione peggiore), le ho detto ‘Guarda, secondo me ti innamori del chirurgo’. E, questo scambio di battute, ho voluto riportarlo all’interno del mio romanzo. È una vicenda realmente accaduta, si sono fidanzati ma non sposati. È una storia che è iniziata ed è finita.

È una storia veramente molto particolare.  

Tutti mi dicono ‘Ma come hai fatto ad inventarla? È pazzesca. E invece è l’unica parte di Randa che non ho inventato. Ho inventato tutto il resto, ma quella no, è proprio mia sorella Paola.

E anche la casa al Circeo, che poi in realtà è Latina. Perché non tutti sanno che Latina è vicinissima al mare. 

A Latina c’è un mare bellissimo. A Latina lido c’è un mare da bandiera blu ed è lo stesso mare del Circeo, anche se i latinensi non lo ammetteranno mai, perché i latinensi vanno tutti a Sabaudia. Ma è lo stesso mare. Quindi mi faceva ridere che Randa, questa ‘sciura’ borghese, avesse una casa a Latina, che però le era sempre stata spacciata come casa a Sabaudia, perché Latina e Sabaudia sono attaccate. Sai, se dici ‘Casa a Sabaudia’ smuovi un mondo molto preciso, Moravia, Morante, Pasolini, adesso Ilary e Totti, (perché ognuno fa i conti con la propria epoca). E invece se dici ‘Casa a Latina’, smuovi un immaginario diverso. Quindi Randa si proporrà di diventare la Marta Marzotto di Latina lido e di rilanciare questa località al grido di ‘Latina Is the new Sabaudia’. Chiamo il sindaco e glielo propongo.

Nella parte finale, senza rivelare nulla, sembra rimanga una porta socchiusa nella storia. Ci sarà la possibilità di rivedere Anna Naldini?

Ti posso dire una cosa? Un momento vanità? Questa è una domanda che mi hanno fatto in tanti e che mi ha resa felicissima perché vuol dire che le persone si sono affezionate al personaggio. Il goal supremo, proprio un momento di soddisfazione grande. Però la risposta è no. Al momento sto scrivendo un romanzo molto diverso che mi sta coinvolgendo molto. Non so ancora se proprio ce l’ho, sono ancora in quel momento di invocazione alla Musa, tipo ‘Cantami, o Diva, ti supplico ‘, però credo ne verrò a capo. Quindi no, Anna Naldini non tornerà, ma non è morta. Posso dire un’altra cosa? Anche qui, autoreferenziale. Anna Naldini è nata come terza parte di una trilogia. Io avevo scritto due romanzi precedentemente, usciti per Dario Flaccovio Editore. Il primo si chiama “Invece Linda” e il secondo “Chi dà il nome agli uragani”, dove il personaggio di Linda Bastiglia, una giornalista precaria, era molto più autobiografico di Anna Naldini. Per questo, nella prima stesura, Anna Naldini si chiamava Linda Bastiglia, perché era lo stesso personaggio. Quasi subito l’idea è stata bocciata perché, a livello editoriale, era molto più facile proporre un romanzo nuovo che non la terza parte di una trilogia, il cui secondo capitolo risaliva a quasi dieci anni prima. Quindi mi hanno detto di creare un personaggio nuovo, di reinventarlo, partendo dagli aspetti a me più cari. Anna Naldini è un’ evoluzione di Linda Bastiglia. Non so neanche se i primi libri siano ancora in commercio. Se a qualcuno dovesse mancare Anna Naldini recuperi Laura Bastiglia, dove e come non lo so.

Inconsapevolmente, e un po’ in maniera differente, hai anticipato i  tempi. Infatti, nel romanzo, Anna Naldini ha questi incontri in videochiamata, con un bicchiere di vino in mano. Io l’ho letto l’anno scorso, più o meno nel primo periodo di pandemia, e dicevo ‘Cavolo ma è quello che stiamo facendo quasi tutti adesso!’. Mi chiedevo, che cosa avrebbe fatto durante la quarantena Anna Naldini?

Anna Naldini l’avrebbe vissuta assolutamente come me, ovvero come un periodo totalmente privo di qualunque tipo di creatività o di edificante occupazione. Io ho guardato con orrore gente che impastava, sfornava, gente che puliva casa, gente che faceva giardinaggio, che ha iniziato a dipingere. Io l’ho vissuta malissimo, ti dico la verità, e credo che Anna Naldini avrebbe condiviso questo mio stato d’animo. Questo perché la Naldini, come me, ha una certa inclinazione per il luogo del bar. Bar che, non ha caso, dà il titolo al libro, ed è anche uno dei teatri delle diverse scene del romanzo, non l’unico, ma è uno degli sfondi più importanti; bar che a me è mancato e continua a mancare tantissimo. Non solo come luogo fisico, ma soprattutto come luogo di aggregazione, ed è ovvio che sia così.

Bene, ci siamo detti un sacco di cose, spero interessanti, e soprattutto spero che sia venuta  voglia, ai nostri lettori di andare a leggere “Caffè Voltaire”. Ringrazio Laura per questa chiacchierata, per i suoi consigli e per averci rivelato tantissime cose. 

Ciao Marco, grazie a te!

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