Esplorare confini che non esistono più. Intervista a Giovanni Vale.

"Stati scomparsi" è la prima serie di guide di paesi che non esistono più. La cura Giovanni Vale, giornalista e scrittore, a cui abbiamo fatto qualche domanda sulla sua prima guida: quella sulla Repubblica di Venezia.

Giovanni Vale: friulano poliglotta, giornalista freelance e corrispondente dai luoghi dell’ex-Jugoslavia. Autore di un libro che è molto più di una guida turistica: la collana “Stati scomparsi” invita il viaggiatore moderno a scoprire il mondo seguendo confini che non esistono più. Ha appena pubblicato il suo primo libro sulla Repubblica di Venezia. 

A giugno hai iniziato il tour di presentazione del libro, viaggiando in bicicletta da Bergamo a Venezia. Ci puoi spiegare questa scelta? 

Abbiamo deciso di fare questo viaggio in bici per la presentazione perché lo spirito del libro è proprio quello di andare un po’ fuori dai sentieri battuti, di fare un turismo un po’ lento e sostenibile. Ci sono delle città nella guida che sono alle prese con il turismo di massa. E quindi a me piaceva non solo condannare i problemi ma anche proporre come fare altrimenti, e la soluzione c’è. Un viaggio diverso, in bicicletta, magari in primavera o in autunno, può contribuire a dare a quelle destinazioni un influsso di turismo più sostenibile.

Mi è piaciuto molto il dettaglio sulla malvasia che racconti nel libro. Trasmette alla perfezione il senso delle pagine che hai scritto.

È una delle storie più sorprendenti e più belle dello stato scomparso della Repubblica di Venezia che mostra come l’eredità di uno stato che non esiste più possa ancora oggi avere un ruolo. Il termine malvasia deriva da un paesino greco – Monemvasia – che era molto importante all’epoca della Serenissima, un centro commerciale fondamentale per la vendita del vino. Lì finivano tutti i vini che venivano detti “viaggiati”, cioè che arrivavano da oltremare (quindi da Creta, dalle isole dello Ionio, dalla Laconia…). Passavano per Monemvasia e poi arrivavano verso Venezia. E dalla storpiatura di Monemvasia che per i veneziani era un po’ complicato da dire nasce – malvasia.

C’è qualche aspetto in particolare del libro che vorresti mettere in risalto?

Mi piaceva l’idea di mostrare che gli stati di oggi, anche se noi li consideriamo come una realtà solida, sono in realtà molto recenti. Quando ho iniziato a scrivere questa guida la pandemia non era ancora scoppiata e in Europa si parlava molto di ritorno dei nazionalismi e dell’importanza dei confini. Quindi la mia idea era di far vedere che quei confini sono recenti e che ci sono confini del passato che dal punto di vista culturale, gastronomico e linguistico hanno ancora un senso.

Come immagini il lettore del tuo libro?

È un libro che nasce a metà strada. La mia intenzione è che se uno lo compra per viaggiare mi farebbe molto piacere. Dopodiché, mi piacerebbe che ci fosse un secondo pubblico, quello che abbiamo scoperto attraversando la Lombardia e il Veneto in bicicletta, che sono quelli che già sanno qualcosa della Repubblica di Venezia e dell’influenza veneziana nei loro territori ma che possono qui sfatare alcuni miti e scoprire cose nuove.

Potresti fare un esempio?

Con gli storici croati con cui ho parlato sono emersi diversi stereotipi. La concezione che i Veneziani avrebbero solo rubato per secoli il legname e oppresso le popolazioni locali va un po’ rivista. Così come non arriviamo al lato opposto a dire che la Repubblica di Venezia fu faro di civiltà che insegnò ai popoli dell’Adriatico a vestirsi decentemente.

È interessante come i termini Venezia e Italia siano spesso usati come sinonimi. Il leone alato diventa così l’emblema dell’italianità e di tanti dibattiti politici…

Durante le interviste mettevo in chiaro fin da subito che non stavo scrivendo una guida nostalgica. Quello che mi interessava capire era il punto di vista delle persone che vivono oggi nei territori che furono parte della Serenissima. È nota in Italia la storia dei leoni scalpellati in Dalmazia, meno forse come il fascismo usò la storia della Serenissima per giustificare la sua presenza in Dalmazia.

Nel libro racconto anche come Rovereto, una città che fu veneziana per ottant’anni nel Quattrocento e poi asburgica per cinque secoli, entra a far parte dell’Italia dopo la prima guerra mondiale e lì la maggior parte dei leoni alati che uno vede in centro sono novecenteschi, con l’ultimo costruito nel 1950! Quindi, così come da un lato si distruggevano i leoni alati perché simbolo di italianità, dall’altro li si aggiungeva per dare italianità a una città che era stata a lungo asburgica. 

Lo scopo del libro è proprio di mostrare che le identità sono fluide, cioè che noi abbiamo diverse identità, o strati di identità. Mi piaceva l’idea che il libro fosse un po’ un grimaldello per aprire quella che sembra essere la cassaforte delle identità. Tutte le identità sono creazioni artificiali e soprattutto sono cose che mutano.

Giovanni Vale

Come hai sottolineato più volte lo scopo del libro è anche quello di creare ponti culturali. La gastronomia è un buon punto di partenza.

Nel libro abbiamo messo quattro ricette – la pasticada, il brodetto, il baccalà e le sarde in saor. Sono tutte ricette che uno può trovare a Venezia, in Veneto, ma anche in Istria, in Dalmazia e perfino a Corfù. A volte era una sorpresa per me, ma anche per i cuochi che avevo intervistato in Dalmazia! Come per la malvasia, l’obiettivo non era metterci un’etichetta, dire la pasticada nasce a Zara o nasce a Verona, ma è far vedere che c’è una cultura comune.

Se ad esempio il secondo volume sarà sull’Impero austro-ungarico quello che mi piacerebbe far vedere è che a un certo punto uno può sovrapporre queste guide e visitare uno stesso territorio ma con occhiali diversi. Per finalmente mostrare che tra vicini di casa abbiamo molte cose in comune e che i confini di oggi sono molto labili.

Ora hai menzionato l’Impero asburgico, in altre occasioni hai parlato dell’Impero ottomano. Quale sarà allora il tema del prossimo volume?

In realtà non abbiamo ancora deciso. Penso che inizieremo a discuterne a fine di quest’anno. Ci sono quei due in palio, a un certo punto si era menzionata anche la Jugoslavia, anche per mostrare che alcuni stati sono “scomparsi” anche molto recentemente… 

Come ultima cosa ti chiederei di dare qualche consiglio a chi, come te, volesse intraprendere una carriera di giornalista freelance.

A me piace scrivere, piace parlare con la gente, piace muovermi. Non è un mestiere facile, nel senso che come tutti i lavori da freelance uno ogni giorno deve guadagnarsi la pagnotta. Secondo me un consiglio buono potrebbe essere scrivere in diverse lingue, esplorare formati diversi (io scrivo e faccio radio, ma la TV è il media che paga meglio) e pensare a punti di vista particolari.

Ivan Vilović, storico, scrittore e content writer.
Da grande voleva fare il giornalista.
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