Le lettere d’amore ai tempi di Facebook. Intervista a Giorgio Biferali

Con “Il Romanzo dell’Anno” Giorgio Biferali (La Nave di Teseo, 2019) mette in scena le inquietudini di un’intera generazione. Attraverso uno stile asciutto e attuale costruisce una sorta di lessico familiare contemporaneo che affonda i suoi riferimenti nella cultura popolare, dal cinema alla pubblicità.

Foto di Angela Scamarcio

La grande innovazione di questa seconda prova di Biferali risiede proprio nel linguaggio e nell’uso di un italiano moderno e vivace, ricco di periodi intensi, un manifesto per un’intera generazione in cerca di autore.  “Virgola” ha chiesto a Giorgio Biferali di raccontare ai suoi lettori la genesi e la costruzione di questa suo secondo romanzo. 

Ciao Giorgio, innanzi tutto vorrei che raccontassi ai nostri lettori com’è stato l’impatto con il successo e soprattutto com’è stato scrivere un secondo romanzo. Quali aspettative e quali paure avevi nell’approcciarti alla scrittura?
Diciamo che il successo, la ricezione, quello che sarà poi il destino del libro, ecco, sono cose che non si possono prevedere. La vera sorpresa per me è arrivata l’anno scorso, con il romanzo d’esordio, L’amore a vent’anni. Nessuno mi conosceva ancora sotto quel punto di vista, nei panni del narratore, ed è andata benissimo. La paura più grande, io, l’ho provata il giorno prima dell’uscita, quando piano piano ti accorgi che il libro non sarà più tuo, ma di tutti. È una cosa che fa venire i brividi, ogni volta. È la paura di non essere capiti veramente, che poi è una paura normale, quotidiana, a pensarci bene. Lo stesso vale per le aspettative, ognuno di noi porta un messaggio dentro di sé, che sembra chiarissimo, naturale, umano, ma poi c’è un mondo intero con cui confrontarsi, e questo succede nei libri e soprattutto nella vita.    

Nello scrivere “Il Romanzo dell’Anno” hai adottato una forma epistolare di natura contemporanea dove periodi estremamente brevi si accompagnano a flussi di coscienza dolorosi e vivi che ci fanno entrare nel vissuto emotivo di Niccolò.  Nel concepire questo stile ti sei ispirato a qualche modello letterario?
Posso aver pensato a Foscolo, Tabucchi, Grossman, Palahniuk, ma poi ho cercato di dimenticarli, di metterli da parte. Ho pensato solamente a cosa significassero le lettere per me, a cos’avrei scritto io se mi fossi trovato nei panni di Niccolò.   

Ho notato che spesso fai riferimento a elementi della vita che sono comuni a molti giovani italiani: quando scrivi immagini di avere un “lettore tipo”?
Non proprio, immagino che là fuori ci siano tante persone che vivono una vita simile a quella che vivo io, che frequentano i miei stessi luoghi, che si fanno un’idea del mondo che potrebbe coincidere con la mia. È un po’ come ritrovarsi nelle piccole cose, nel quotidiano, dove esistono “amici tipo”, “fidanzate tipo”, “lettori tipo”.   

Nel suo scrivere le lettere, Niccolò sembra interiorizzare paure e nevrosi della sua generazione per poi condividere i suoi pensieri con Livia che forse non potrà mai rispondere. Ho notato in questo senso un parallelismo con l’uso che facciamo della bacheca di Facebook nella quale tutti noi in qualche modo analizziamo eventi anche tragici alla ricerca di una condivisione che spesso resta senza risposta. L’auto-narrazione social ha influenzato lo stile che hai adottato in questo romanzo? 
No, direi proprio di no. C’è anche qualcuno che ha provato ha scrivere un romanzo facendo copia-incolla con la sua bacheca di facebook, e il risultato si è visto. La bacheca di facebook mi ricorda i muri dei bagni pubblici, tutti ci scrivono sopra qualcosa, ma proprio tutti tutti. Ogni tanto si legge qualcosa di bello, di geniale, ma il più delle volte, ecco…
Se c’è una cosa che mi ha ispirato, inconsapevolmente, è l’immediatezza che c’è nel linguaggio dei social, in generale, è come se in fondo, scrivendo questo romanzo, io avessi provato a trovare un compromesso tra quell’immediatezza lì e i tempi lunghi, lunghissimi di una lettera.  

Una parte importante delle relazioni di Niccolò si basa sulle chat di WhatsApp con i suoi amici. Credi che nello scrivere un romanzo oggi si possa prescindere dalla pervasività dei social?
Certo, ma se lo facessi io, per me, sarebbe ipocrita, visto che fanno parte della mia vita, dalla mattina alla sera. 

Livia è una giovane scrittrice emergente. Hai qualche consiglio da offrire a dei giovani scrittori che oggi vogliono provare a vedere pubblicate le loro storie? 
Leggete molto, quello che vi pare, eh, senza farvi condizionare dai “maestri” o dai sensi di colpa. Fatevi proprio un giro in libreria. Dopo un po’, troverete l’autore, l’autrice, gli autori, le autrici, che parlano la vostra lingua, e vi aiuteranno a trovare la vostra voce. Potreste cominciare a scrivere qualche racconto, e proporlo poi a una rivista, in Italia ce ne sono diverse, e sono un ottimo punto di partenza.
Niente autopubblicazione, niente case editrici piccole o grandi che vi chiedono dei soldi per pubblicare la vostra storia. Quando sarà il momento, arriverà qualcuno che punterà su di voi. Coraggio, e in bocca al lupo!