Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Paola Cereda, brianzola di nascita e torinese di adozione che con il suo ultimo libro “Quella metà di noi” edito da Giulio Perrone Editore, ha scavato il tema delle barriere, dei segreti, della nostra metà che non mostriamo agli altri e acceso una luce sul mondo delle badanti, raccontando la storia della protagonista, Matilde Mezzalama. Ma oltre a questo, Paola ci ha raccontato anche tanto altro: della scrittura, del teatro, della psicologia, ma anche il paesaggio, le storie e l’allenamento quotidiano.
Paola, sei al tuo quinto libro che è tra i 12 finalisti al premio Strega. Oltre alla scrittura, abbiamo scoperto la tua passione per il teatro sociale, grazie alla tua collaborazione con assaiASAI un’associazione di Torino, per cui scrivi e dirigi spettacoli. Cos’hanno in comune la scrittura e il teatro?
La scrittura e il teatro hanno in comune le storie. Entrambi pescano dal quotidiano e lo trasformano in racconti in grado di generare spazi di incontro e di pensiero. Si nutrono di parole ma anche di suoni, odori, luci, emozioni. Io, nello specifico, mi occupo di teatro comunitario. Nella compagnia assaiASAI di Torino di cui curo la regia, ci sono circa 40 attori, italiani e stranieri, con diverse abilità. Insieme costruiamo drammaturgie collettive che partono dalle storie dei singoli, si mischiano alla Storia e diventano spettacoli teatrali su temi di grande attualità, dai diritti umani alla migrazione al tempo del web.
In teatro ci vuole molto allenamento, credi che anche nella scrittura sia così? Se si, come ti alleni?
Certo, mi alleno e con molta costanza. Credo che tra la predisposizione alla scrittura e la possibilità di una riuscita (il che non significa “successo”), nel mezzo ci sia la dedizione, cioè il tempo necessario alla parola. Mi alleno leggendo molto e possibilmente bene, e scrivendo ogni volta che posso. Non dico mai “scrivo libri”: dico “scrivo storie” che a volte diventano libri e a volte no. Sempre e comunque, sono un ottimo esercizio.
Parliamo del tuo romanzo. Da dove nasce l’idea di “Quella metà di noi”?
Dal piacere di raccontare due metà della Torino nella quale vivo, il centro e una delle periferie, e la metà di noi che non postiamo sui social. Abbiamo tanti segreti che non raccontiamo, per preservarli oppure per paura di essere giudicati. Volevo mostrare quanto sia importante la complessità che caratterizza tutto e tutti, dai luoghi agli esseri umani.
Come procedi per la stesura di un’idea?
Identifico un paesaggio che mi interessa e lo studio da un punto di vista geografico, storico e culturale. Spesso vado nei luoghi e chiedo a chi ci abita di raccontarmi il suo paesaggio, il suo modo di viverlo. Il protagonista nasce solo in un secondo momento. La trama arriva da sé, dopo diversi mesi passati a masticare notizie e narrazioni sul paesaggio che diventa la scenografia naturale della storia.
Matilde, la protagonista del libro, ha fatto la maestra elementare per 35 anni e a 65 decide di fare la badante. Nel libro è forte questo tema del prendersi cura.
Sì. Per lavoro (sono psicologa) ho incontrato molte assistenti familiari durante una formazione dal titolo “Curarsi di chi cura”. Sono entrata in contatto con storie migratorie a metà tra due case, due lingue, due famiglie, due nazioni. Le relazioni di cura sono regolate da contratti ma restano relazioni umane e speciali, dove mostriamo la nostra intimità e chiediamo di essere accolti, nonostante le nostre fragilità.
Altro tema è quello della metà. Matilde vive in periferia ma lavora in centro, fa quasi da collegamento tra questi due mondi. Dici nel libro “A noi che abitiamo nel mezzo. Nel mezzo di più lingue, nel mezzo di due case, nel mezzo di due vite, nel mezzo di decisioni ancora da prendere.” Questo vivere nel mezzo è un arricchimento o un impoverimento?
Matilde abita a Barriera di Milano, quartiere torinese ad alto tasso di immigrazione, e lavora in via Accademia. Si muove prendendo i mezzi pubblici che “collegano” due parti della città lontane ma sorelle. Parlare di periferie include il concetto di conflitto e di “grumi difficili da amalgamare”, però sono convinta che sia fondamentale raccontare anche le risorse e la vivacità di questi contesti, per restituire speranza e aprire alla convivenza come arricchimento.
Quali libri stai leggendo al momento?
Ora sto leggendo “La Straniera” di Claudia Durastanti, un bel romanzo in dozzina Strega. Recentemente ho letto con piacere alcuni testi della drammaturga e scrittrice francese Yasmina Reza.
A proposito di premio Strega, sei nella dozzina finalista. Rappresenta più una tappa o un punto di arrivo?
Assolutamente una tappa, molto importante perché amplifica la possibilità di raggiungere tanti lettori.
Una cosa che un aspirante scrittore dovrebbe fare assolutamente.
Mandare il suo manoscritto al Premio Calvino, che è una grande opportunità per gli scrittori non ancora pubblicati.
Progetti futuri? Hai già in mente un’idea per una nuova storia?
Al momento non ho ancora trovato il paesaggio giusto. Resto in attesa e mi godo il presente.