Gustavo che non credeva alla paura

Questa è la storia del signor Gustavo. O meglio: di quando il signor Gustavo fu sospeso dalla propria vita.
Per sempre?
Questo a me, semplice narratore, non è dato saperlo, ma forse tu che leggi potrai trovare nella fedele ricostruzione dei fatti gli indizi utili a sciogliere il dilemma.
Era un venerdì come tutti gli altri per il signor Gustavo, forse per non deludere le aspettative dettate dal suo nome, forse solo per scarsa propensione a godere del mondo esterno, per lui ormai da tempo il venerdì significava voglia di dormire, di spegnere la testa dentro qualche serie tv, di dimenticarsi.
Di cosa? Chiederete voi.
Chissà, ma di certo Gustavo metteva un bell’impegno in questa storia della dimenticanza solitaria. Fu agognando quest’obiettivo che aprì impaziente la porta di casa quel venerdì. La prima cosa che attirò la sua attenzione fu la sedia. Era in piedi sul tavolo, piazzata proprio al centro. Era così intento a domandarsi come fosse finita lì, che si accorse che mancava il tetto solo quando un colpo di vento fece volar via il cappello che calzava a perfezione sulla sua testa riccia. Lo sgomento fu tale che gli ci vollero diversi secondi prima di ricominciare a respirare. A pensarci bene è possibile che sia rimasto senza fiato per quasi due minuti interi, prima di pronunciare le parole che avrebbero cambiato il corso della sua pigra, solitaria, sonnacchiosa vita.
Ma che…?!
Proprio questo disse. Ora, a rifletterci con attenzione “ma che” seguito da tre puntini di sospensione, dal punto interrogativo e poi esclamativo, è un preludio, una domanda retorica che non prevede una risposta, ma precede un’azione. Lo dice qualcuno quando il figlio, il gatto, il cane, la lavatrice hanno combinato un guaio e lo dice subito prima di iniziare a: bloccare il figlio, mostrare il manico della scopa al gatto, la ciabatta al cane o prendersi la testa fra le mani dopo aver infilato un piede nella casa allagata mentre si interroga sul perché abbia rimandato tanto la chiamata all’idraulico.
Così come queste due parole per niente innocue anticipano, il nostro Gustavo, ripreso il controllo del suo corpo e del suo respiro, si spostò sotto al grande buco sul soffitto e, non pago, salì sul tavolo e poi sulla sedia, che sembrava esser stata messa lì proprio per facilitargli il compito.
Una trappola! puoi pensare tu che leggi.
Ma Gustavo non pensava, ormai lanciato dentro quel funesto “Ma che…?!” che avrebbe complicato non poco la sua poco gustosa esistenza. Ormai in piedi sulla sedia, si mise sulle punte, e ripetendo fra sé e sé le parole che ormai conosciamo bene, lanciò lo sguardo al di là dell’inusuale varco, a cercar di capire che fine avesse fatto la copertura della sua casa. Fu quando l’assurdità della situazione stava per trasformarsi in una banale storia di uragani e case scoperchiate, che Gustavo, suo malgrado, iniziò un inaspettato quanto veloce volo verso l’alto. Solo allora urlò, lo stolto protagonista di questa storia. Talmente assuefatto alla vita e avvezzo a non dar retta alle volubili emozioni, non prese in considerazione la paura di quando vide la sedia, e non si fece bloccare neanche dal terrore che provò alla vista del tetto scoperchiato. Incastrato in quel pericoloso “ma che…?!”, solo troppo tardi desiderò seguire l’istinto primitivo che, saggiamente, lo avrebbe fatto correr via già alla prima incongruenza del suo rientro a casa.
Ma torniamo allo spaventoso volo. Fu dopo un tempo veloce – eppure incalcolabilmente lungo – che il nostro si ritrovò sospeso a mezz’aria, in un enorme spazio illuminato, incastrato fra due grandi cotechini che stringevano la sua collottola e lo facevano ondeggiare pericolosamente. Dei suoni rimbombavano nelle sue orecchie, talmente forti che riusciva a malapena a distinguere qualche significato: gioco tetto bambole casa rotto. La testa martellava, il cuore era un tamburo impazzito, superò il record personale di apnea. Finché si decise ad aspirare e iniziò a muovere lo sguardo intorno per capire cosa stesse accadendo. 
Fu allora che inquadrò l’enorme figura che, dritta di fronte a lui, con espressione accigliata, sembrava stesse sgridando il proprietario delle due grandi dita che lo reggevano per il collo della giacca. Alzò lo sguardo al di sopra della sua testa, per capire a chi fossero rivolti i rimproveri e, prima ancora di aver realizzato chi fosse il suo burattinaio, con terrore le vide arrivare. Sebbene non amasse la tristezza, come d’altronde ogni altra emozione, non avrebbe mai pensato che delle lacrime potessero far male come quelle, enormi, che colavano implacabilmente verso di lui. Fece appena in tempo a pararsi gli occhi con le braccia, che fu travolto da dolorose secchiate di acqua salata e, ancor prima di riprendersi, sentì le dita mollare la presa e iniziò a precipitare. Nessuno finora ha saputo spiegare come fece a ritrovarsi tutto intero una volta atterrato, comunque di certo prese una bella botta in testa, tanto che per un lungo tempo cadde in un sonno agitato, che lo convinse di aver vissuto un terribile incubo e gli fece ripromettere di chiedere dei sonniferi più efficaci al suo dottore. Capirai bene, caro lettore, lo sgomento sul volto del povero Gustavo quando, risvegliandosi, si ritrovò disteso su un duro divano di plastica verde, contornato da piatti rosa e gialli pieni di cibo rosso, arancione, viola.  E nessun tetto sulla testa, solo due grandi, grandissimi occhi, ora sorridenti, che lo fissavano dall’alto, e due enormi dita che puntavano proprio verso di lui.
Ora, caro lettore, tu forse vuoi sapere cosa accadde poi, ma a me, semplice narratore di storie quasi vere, non è dato immaginarlo, poiché il mio compito è narrare, e in poche battute accompagnare gli altri alle soglie del mondo del poi. 


Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera.