Sull’acqua

Quella mattina non faceva freddo, eppure il lago sembrava più limpido del solito, la superficie in alcuni punti più accecante, quasi ghiacciata. Uno strato di ghiaccio a diciotto gradi? Cosa aveva quel lago per rendere quel raggio di sole così insopportabile?

Il vecchio falegname si avvicinò alla riva per guardare, per trovare il punto esatto da dove quel riflesso cominciava il suo cammino per tagliare il cielo. C’era quasi: afferrò il ramo di un albero sporgente, poi un arbusto e lì, accovacciato per non scivolare sulla riva fangosa, individuò il punto esatto. Gli occhi allungati da una smorfia scrutatrice, mise una mano nell’acqua fresca, la mosse ed i fronti d’onda fecero oscillare qualcosa, quel qualcosa. Si lasciò scivolare per raggiungere quella lastra di ghiaccio fuori stagione, la sfiorò e sgranò gli occhi. Se l’ avesse trovata sul fondo del lago avrebbe pensato ad una lastra di vetro, ma sulla superficie no, non poteva essere vetro, questa galleggiava. Avrebbe dovuto essere ghiaccio ma la sua mano l’avrebbe spezzata o disciolta. La tirò a sé. Quella lastra così liscia, regolare, perfettamente arrotondata, come consumata dalla sabbia ma lucida. Era lì, concreta. Era vetro e si teneva a galla come legno. Era responsabile di tutta quella luce riflessa, luce che la attraversava deviandosi, in parte nell’acqua su cui poggiava ed in parte disperdendosi nell’aria che la sovrastava.

Il falegname era abituato ad intagliare il legno, non il vetro ma quella superficie era già così ben levigata, così diversa dai ceppi di legno poroso, sotto le sue mani callose, quasi scivolava, non la sentiva. Guardò quella sua conquista poggiata sul tavolo del suo laboratorio, prese il pezzo di legno che aveva intagliato il giorno prima, ne incise un rettangolo all’interno, prima impreciso, poi lo affinò fino a giungere alla misura giusta per inserire il vetro. Una finestra col vetro. In quel paesino se ne vedevano poche; il prossimo inverno qualche bambino fortunato avrebbe potuto guardare la neve cadere dal calduccio della sua stanza o, in estate e in primavera, tutto il paese avrebbe potuto godere della luce diffusa da una finestra della chiesa. 

Il giorno dopo si recò al lago come d’abitudine. Riconobbe subito quel fascio di luce e si affrettò alla riva. Vide il ramo dell’albero, poi l’arbusto, il fango fino ad arrivare ad intravedere un nuovo vetro, un po’ diverso stavolta, un po’ più opaco ma con la stessa forma. Un altro bambino si sarebbe svegliato con la luce anche d’inverno. E così, di giorno in giorno, si recò al lago in cerca di un riflesso e, di giorno in giorno, il suo umile legno si arricchiva di una più nobile sagoma e un bambino, una famiglia, un abitante del paese montava una nuova finestra, un lucernaio nella propria casa. 

Da dove veniva quel vetro? Perché il falegname aveva modificato le sue opere dopo tanta esperienza? In un paese piccolo, si sa, i segreti durano poco ma restano confinati lì per lo più. Stavolta, invece, i primi ad arrivare furono i giornalisti, ammassati sulle rive del lago come fossero soli. 

“Galleggia”, “Ogni giorno un pezzo nuovo!”, “Perché qui?”
Seguirono gli scienziati a studiare il caso: uno, due, tre, molti.
“È la tensione superficiale dell’acqua, le forze di Van der Waals” disse il primo scienziato.
“E il principio di Archimede?” domandò il secondo.
“Deve essere la densità del lago! Non c’è altra spiegazione!”, “No! È l’attrazione della luna”, “È chiaro! È avvenuto un passaggio di stato vetroso!”

Giunsero, infine, i curiosi seguiti da file di turisti ordinate come formiche in opera, ma con le mani incrociate ed i nasi sporgenti verso la riva. Furono organizzate gite, garantito il fenomeno: -Dovrebbero fare la prova mettendo altro vetro.-, -No, meglio togliere lo stesso e rimetterlo per vedere se affonda-. Il secolare silenzio era stato rimpiazzato da un vociare continuo, che riecheggiava tra le montagne. Non più il rumoreggiare del vento ma, a far compagnia al lavoro di falegnami e fabbri, il traffico come in un’officina aperta, lo sfiatatoio dei gas degli autobus e delle strutture per turisti che crescevano lungo i sentieri montani, le cui ombre oscuravano le piazze del paese sottostante, ormai prima del consueto lavoro della montagna. Si accesero insegne luminose, le sedie arrugginite del bar vennero impilate e sostituite da lucide panchine in plastica. 

Il vecchio falegname tornò a lavorare il legno a porta chiusa, senza recarsi più al lago e le sue finestre tornarono piene e porose.

Al lago si recavano invece tutti gli altri dove lo specchio d’acqua produceva costantemente il suo vetro galleggiante nelle forme più disparate, facendo bella mostra delle sua abilità ma distruggendo di giorno in giorno qualsiasi ipotesi: prima compariva una lastra ma, se la spiegazione diventava la tensione superficiale, il giorno dopo ecco una sfera; quando diventava la gravità ad essere responsabile ecco che si materializzava un cilindro. E lì restavano tutte quelle forme come in un museo: veto assoluto di raccolta diretta dal lago, ma possibile acquisto come souvenir presso la bottega del nuovo albergo.

Un giorno come tanti, erano molti lì sul lago ad attendere ma il vetro quel giorno non c’era; né mai arrivò. Non arrivò neanche dopo il consueto sorso di spumante offerto in igienici bicchierini di plastica. Né quel giorno, né quello seguente. Sul lago galleggiavano solo qualche ago di pino, un tronco, qualche foglia. Qualcuno si sforzò, cercando di vederlo e lo indicò lontano. Tutti gli spettatori si mossero in quella direzione, avanti e indietro lungo la riva per qualche giorno, ma ormai era chiaro. Sparirono i giornalisti ma rimasero i diversivi, i temporeggiamenti, le offerte, gli aperitivi al tavolo elegante, la locanda con l’insegna luminosa, le cose normali della città e che ai paesani sembravano chissà che. Si allontanarono i curiosi, mentre rimasero per qualche giorno gli scienziati, fiduciosi nella regolarità delle leggi della natura. Successivamente, andarono via anche loro. Rimasero gli abitanti increduli più di quanto lo fossero stati per il lago ed il suo vetro, sospesi tra il vecchio quotidiano quello recente. Rimase la locanda con l’insegna luminosa, rimasero i bicchierini di plastica per gli aperitivi, rimase il tavolo elegante, le offerte, quelle cose normali per una città ma non per un paesino. E rimase il cemento che nel lago affondava e sarebbe affondato sempre, come in tutti gli altri laghi. Rimasero il vecchio falegname con la porta chiusa e le sue finestre di vetro delle stanze dei bambini in attesa di veder cadere la neve. 

Rimase il lago senza vetro, senza quel riflesso ma calmo, un po’ più torbido ma noncurante e superbo; rimasero quell’albero, quell’arbusto e la riva fangosa. Tornò quel secolare silenzio ma sembrava diverso stavolta, cambiato: passava per i vicoli ristretti dalle nuove costruzioni, fischiettando come il fiato nei canali di un’armonica stonata, a tratti giocherellone, a tratti ferito, smuovendo le foglie degli alberi rimasti, ma non di quelli che erano stati abbattuti; a fargli compagnia guizzava la luce con il suo solito alternarsi stagionale ma non troppa, non fino a tardi e solo fino all’orizzonte dell’ultimo soffitto dell’albergo.


Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera