Abbiamo un problema di attenzione frammentata?

È sempre più difficile guardare un film per intero o leggere un libro senza distrarsi. Intanto, passiamo quasi 7 ore al giorno sul web, tra social e siti: ma cosa tratteniamo davvero?

Guardare le oltre due ore di “2001: Odissea nello spazio”, dall’inizio alla fine. Trovare tempo e voglia per appassionarsi alle vicende narrate nelle oltre mille pagine di “Guerra e pace”. Scorrere per un tempo indefinito, per più volte durante la giornata, il feed dei nostri account social. Ci sono differenze tra queste attività? Sicuramente sì, anche per lo sforzo che il nostro cervello deve compiere: per dedicarsi, per concentrarsi, per prestare attenzione. Una concentrazione e un’attenzione nei primi due casi profonde, allargate, articolate, nel terzo frammentate e parcellizzate. 

Passiamo tanto tempo online e siamo capaci di fruire di tanti contenuti in un lasso di tempo ridotto. Secondo il report di We are social – Hootsuite, “Digital 2022 in Italia”, su un campione dai 16 ai 64 anni il tempo medio trascorso al giorno sui social media è di 1 ora e 47 minuti, su internet di 6 ore e 9 minuti. Le nuove generazioni nascono e vivono con uno smartphone in mano. I dati raccolti dall’Osservatorio sulle tendenze e comportamenti degli adolescenti, riportati su Focus, sono lampanti: un campione di circa 7.000 adolescenti tra i 13 e i 18 anni trascorre in media 7 ore al giorno sul web, con picchi fino a 13 ore.

Spesso fatichiamo anche a capire come immagazzinare e classificare i molti dati ricevuti all’interno del variegato deposito di esperienze e informazioni che popolano il nostro cervello.

Ma cosa tratteniamo davvero? Non credo di scrivere nulla di estraneo all’esperienza della maggior parte delle persone se affermo che molte volte ci stacchiamo dai social con un valore di quanto percepito molto basso e, anzi, senza neanche ricordare tutto ciò che per una serie di nanosecondi ha intrattenuto passivamente la nostra mente. La stessa voglia di intrattenimento e di novità ci spinge a scrollare ripetutamente i newsfeed, leggere solo il titolo di qualche notizia, fiondarci direttamente sui commenti a un post con un cartoccio ‘virtuale’ di popcorn in mano.

Spesso fatichiamo anche a capire come immagazzinare e classificare i molti dati ricevuti all’interno del variegato deposito di esperienze e informazioni che popolano il nostro cervello. Un cervello plastico, occorre ribadirlo, noto per la sua capacità di modificarsi a seconda dell’esperienza e dell’ambiente. Un cervello che si sta adattando al nuovo rapporto con la tecnologia. Il costante flusso di input, stimoli, informazioni cui siamo sottoposti, e tra i quali ci dobbiamo districare in modo veloce, ha favorito un abbassamento della nostra capacità di attenzione. Secondo uno studio Microsoft su un campione di 2.000 ragazzi, tra il 2000 e il 2015 la capacità media di focalizzazione è calata del 33%. Nel 2000 era in media di 12 secondi, nel 2015 è scesa a 8 secondi. 

Dobbiamo parlare di momento storico dell’attenzione frammentata? Le piattaforme digitali assecondano questa tendenza. I contenuti più in voga sono quelli brevi, visuali, in grado di colpire occhi e mente in pochi nanosecondi, per farsi notare tra i molti altri. Con la consapevolezza però che non potranno mai trattenere oltre i 15, 30 secondi di una storia, di un reel. Poi è troppo, poi ci si annoia, poi c’è bisogno di cambiare panorama, di un nuovo orizzonte. Il consiglio che viene dato ai content creator per la costruzione di storie su Instagram? Quello del pattern unexpected. Fuor di anglicismi, del variare, del creare quasi a ogni storia schemi visivi diversi, inaspettati, modalità di fruizione differenti. Altrimenti l’utente skippa il contenuto, come si suol dire. Passa ad altro, magari ad altro content creator, oppure abbandona (momentaneamente, s’intende) il canale. 

Anche la sovrabbondanza di content creator digitali è indicativa di questa parcellizzazione di voci, fonti e informazioni: pare che tutti oggi, qualunque sia la professione, dovrebbero essere in grado di produrre contenuti coinvolgenti, intriganti, stupefacenti. La capacità di creare video, reel, grafiche, di saper parlare in video, di saper divulgare la propria professione, di sapersi vendere sui social è considerata una soft skill trasversale a mille e mille lavori diversi. Sorge spontanea una domanda: ci sarà ancora qualcuno tra due, cinque o dieci anni, in grado di studiare, leggere, informarsi, di fare affidamento alle fonti più appropriate, di fare domande, prima di creare contenuti e dare risposte?

Ecco, in un contesto di economia dell’attenzione, una singola persona può esercitare un diritto, compiere una scelta che faccia in modo di non essere pedina inconsapevole di un sistema economico che sull’attenzione genera denaro e profitto, trasformandosi invece in maratoneta allenato e consapevole dei propri passi?

Stigmatizzare la grande quantità di dati e fonti come fosse di per sé il problema è forse semplicistico. Riporto le parole di Luciano Floridi in “La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo“: “Sì, abbiamo assistito a una palese crescita esponenziale di dati su un numero sempre più elevato di temi, ma lamentarsi di tale sovrabbondanza equivarrebbe a lamentarsi di un banchetto in cui sia offerto più di quanto siamo in grado di mangiare. I dati restano un bene, una risorsa da sfruttare. Nessuno ci costringe a digerire ogni bit disponibile“. I big data sono destinati a crescere, così come l’infodemia, la circolazione di una grande quantità di informazioni che spesso rende difficile orientarsi tra posizioni e fonti. E quindi? “L’unico modo per fronteggiare tale evento è sapere chi siamo e cosa stiamo cercando“. Le parole chiave potrebbero essere apertura, consapevolezza, metodo. Per nulla facile. 

Ecco, in un contesto di economia dell’attenzione, una singola persona può esercitare un diritto, compiere una scelta che faccia in modo di non essere pedina inconsapevole di un sistema economico che sull’attenzione genera denaro e profitto, trasformandosi invece in maratoneta allenato e consapevole dei propri passi?

Potrà sembrare fuori luogo, ma c’è una citazione da “Pane e vino” di Ignazio Silone che mi porto dietro da quando avevo 12 anni e che per me è risposta a ennemila quesiti, domande, dubbi, patemi: «La libertà non è una cosa che si possa ricevere in regalo. Si può vivere anche in paese di dittatura ed essere libero, a una semplice condizione, basta lottare contro la dittatura. L’uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto è libero. L’uomo che lotta per ciò che egli ritiene giusto è libero. Per contro, si può vivere nel paese più democratico della terra, ma se si è interiormente pigri, ottusi, servili, non si è liberi; malgrado l’assenza di ogni coercizione violenta, si è schiavi. Questo è il male, non bisogna implorare la propria libertà dagli altri. La libertà bisogna prendersela, ognuno la porzione che può».

Ora, credo che un primo fondamentale passo possano davvero farlo le persone che utilizzano social e piattaforme online. Come? Solo qualche suggerimento che do a me stessa, prima che a ogni altra persona. Prendendosi la libertà di usare i mezzi con spirito critico, assumendosi la responsabilità della propria dieta informativa, del proprio intrattenimento, delle proprie capacità di attenzione. Evitando il solo intrattenimento passivo, confinandolo ad alcuni selezionati e ridotti momenti durante la settimana. Scegliendo: quali pietanze mettersi nel piatto in questo banchetto particolarmente ricco, cosa guardare, da chi farsi ispirare. Mettendosi in dialogo, in un confronto, anche interno, con i contenuti di cui si fruisce, evitando un’assunzione passiva, poco salutare. Sforzandosi: di prendere in considerazione anche contenuti, analogici o digitali, che richiedono un’attenzione maggiore, o più prolungata, ma che poi di quello sforzo ripagano.

Sì, leggere Tolstoj, guardare Kubrick resta una grande ricchezza che non possiamo ignorare. Se i social, se il web devono essere usati, li dobbiamo usare per allargare le nostre possibilità, non per consentire loro, e alle aziende che li governano, di utilizzare a piacimento la nostra attenzione. 

Elisabetta Molteni, giornalista, social media manager.
Scrive di comunicazione e del modo in cui la tecnologia impatta sulla vita e le relazioni tra le persone.
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