Con la riapertura di cinema, teatri, musei, saremo in grado di riprenderci la Vita?

Il 26 aprile in Italia è stata una piccola data storica: riaprono i teatri, i cinema, i musei. Ma siamo in grado di tornare a vivere o ci siamo addormentati nel (non) dolce far niente?

Questi 14 mesi di pandemia sono stati indubbiamente qualcosa di assurdo e pesante per ognuno di noi. L’Italia ne uscirà stremata, piuttosto che migliore come si diceva inizialmente in uno slogan intriso di retorica, seppur necessario. Quell’augurio ci ha aiutato a vivere i primi mesi di durissime restrizioni in un’atmosfera di sacrificio condiviso, a tratti esaltante. Tutti ci ricordiamo i canti dai balconi, gli applausi, gli arcobaleni appese alle finestre e quella ritrovata identità comunitaria che si fa viva solo di fronte alle catastrofi.
Poi è arrivata l’estate e la memoria si è rivelata labile. Il peggio sembrava passato e l’Italia di agosto non era la solita di sempre, era peggio. Intasata di connazionali affamati di spiaggia e a venire meno è stato il turismo estero che fa tanto bene, non solo alle casse del settore, ma anche perché significa confronto con il diverso, una cosa di cui siamo digiuni da troppo tempo.

L’autunno poi non è mai stato così triste come quello del 2020, di un’Italia che ripiomba nel bombardamento di numeri di vittime, di malati, di posti letto mancanti e la cosa più tragica è che è diventata una lotta che non fa rumore. I morti non fanno più pena né paura, ci siamo assuefatti alla tragedia quotidiana e ahimè anche all’assenza di emozioni. Le giornate tutte uguali ci hanno immobilizzato là dove il Coronavirus ci ha sorpresi e così siamo rimasti. Non abbiamo vissuto esperienze al di fuori da noi stessi e dalla nostra cerchia famigliare convivente (per i fortunati che ne hanno una). Molte persone ne hanno approfittato per fare un figlio o adottare un cane, pur di far fruttare questo tempo sospeso. E chi non aveva queste possibilità è scivolato lentamente in un vuoto inquietante. Questa sensazione è stata definita molto bene all’interno di un articolo uscito qualche mese fa sul New York Times. Nel pezzo in questione Adam Grant, professore e contributor della testata, usa la parola languishing, che potremmo tradurre nel nostro “languire” e corrisponde all’assenza di benessere, inteso come stato mentale, si intende. Non è depressione, per quella ci sono le cure, la terapia, soluzioni, conforto, riconoscimento, mentre questa malattia non ha una diagnosi, né una cura.

Siamo in grado di tornare a fruire dell’arte? Di farci penetrare dalle parole di uno sconosciuto? Dalle note, magari imprecise, di un musicista che torna su un palco o per la strada?

Come ho già provato a suggerire nel mio precedente intervento su questa rivista, quando inventiamo una parola è perché abbiamo bisogno di descrivere qualcosa di nuovo. Ecco, qui abbiamo una condizione inedita e anche poco attenzionata, ma che riguarda molti di noi. Non le vittime del Covid, ma quelli che ne hanno subito le conseguenze sociali: dalla crisi economica, lavorativa, alle limitazioni delle libertà personali. Il tutto si è tradotto in una totale mancanza di stimoli.
Grandi assenti l’arte e la socialità organizzata che spesso funzionano da catalizzatori di emozioni nella nostra quotidianità (prima del Covid).
Cos’è l’arte se non la condivisione di emozione? La propria di osservatore, e quella di chi canta, dipinge, recita, disegna, balla. E se partiamo dal presupposto che l’uomo è un animale sociale che nel confronto con l’altro trova la sua massima realizzazione, l’arte rappresenta un motore fondamentale del confronto edificante tra esseri umani.
Se viviamo insieme e dormiamo insieme e mangiamo insieme e possiamo vederci solo tra di noi, dopo 14 mesi di cosa possiamo parlare? Su cosa possiamo discutere, inteso come confronto costruttivo e non mero sfogo emotivo di frustrazione? Se solo avessimo avuto la possibilità di andare al cinema, allora avremmo potuto commentare il finale penoso o l’attrice bravissima, la sala che a inizio proiezione sembra calda, ma ai titoli di coda si gela e ci si ritrova con la giacca come coperta. Invece no. Nessun concerto deludente o sorprendente, strapagato, regalato. Nessuna mostra temporanea scovata passeggiando per caso. Al massimo lo streaming. Dio sia lodato, lo streaming, lungi da me sputare nel piatto in cui più che mangiato ho vissuto tutti questi mesi, ma non è stato abbastanza.
É stato come avere un frigo strabordante di leccornie, e non sapere da che parte cominciare, mordere tutto un po’ qui un po’ lì, tanto da perdere la sensibilità del palato, da ingozzarsi, tanto da lasciare il frigo pieno di macerie, di scarti per poi sentirsi mai davvero sazi.

Ora i teatri riaprono, riaprono le sale dei cinema e dei musei.
Io sono emozionata, ho comprato un biglietto oggi per domani in uno dei teatri più storici della mia città, Torino. Vivo questa breve attesa, come dovrebbe essere, emozionante. Perché le nostre vite non sono fatte per essere composte di giorni identici che depenniamo uno dopo l’altro come numeri e non come racconti, siamo fatti per quel brivido che ci regala un progetto, una data importante in arrivo. Le aspettative ci movimentano, ci alterano, ci colmano. Non per niente l’incertezza di un evento lieto, uno qualsiasi, è stato il fattore che più di tutto ha appiattito i nostri stati d’animo. Ci siamo messi in pausa.
E adesso questa piccola data felice, questo 26 aprile per molte regioni italiane (e non per tutte ahimè) ci sta regalando qualche sussulto ed è la prima resa dei conti. Come quando togli il gesso e piano piano provi a riacquisire i movimenti che facevi prima, ti misuri con gli eventuali strascichi dell’infortunio.
Siamo in grado di tornare a fruire dell’arte? Di farci penetrare dalle parole di uno sconosciuto? Dalle note, magari imprecise, di un musicista che torna su un palco o per la strada?
Il mio è un timore legittimo, perché l’essere umano è fortemente adattivo, nel bene, ma anche nel male. Ora dobbiamo risvegliarci, ognuno a modo suo e con i suoi tempi e riaffacciarsi alla vita, all’altro. Imparare nuovamente che l’estraneo non è sinonimo di pericolo; che contaminazione e contagio sono due parole differenti. Che il contatto è prezioso e va in qualche modo riscoperto.

La virgola è la porta girevole del pensiero.

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