Fatti e chiacchiere dietro la superficie: i non detti delle storie e della vita.

Ti trovi nella scena di un film. Davanti a te due uomini sono seduti intorno a un tavolo. Fuori riesci a scorgere il prato, in lontananza vedi le colline, il cielo, tutto è calmo. Dentro, uno dei due uomini si sta preparando la pipa. È in camicia e pantaloni, leggermente sporchi, colpa del lavoro sospeso prima che l’altro uomo, un colonnello, si presentasse davanti alla casa e gli chiedesse di entrare per fare due chiacchiere. Il primo è silenzioso, non è calmo, fuma nervosamente la sua pipa e i suoi occhi raramente si sollevano dal tavolo. L’altro è calmo per davvero, si potrebbe dire persino allegro. Ha appena bevuto un bicchiere di buonissimo latte da poco munto dalle mucche del primo, un contadino, il registro è aperto davanti a lui; accanto ai nomi di una famiglia ci sono delle spunte, segnate non appena il contadino ha parlato, e insieme ai nomi le chiacchiere della fuga. Le figlie del contadino stanno aspettando fuori, quelle che l’uomo in uniforme ha definito così graziose, le ha guardate una per una, soprattutto l’ultima, ne sembrava colpito. E insieme alle figlie i soldati al servizio del colonello. Solo tu stai guardando i due uomini seduti, la pipa che fuma, il bicchiere di latte vuoto, e solo tu stai guardando anche al di sotto, sotto il pavimento, dove si intravedono altri occhi tra le crepe e le mani di una donna che si sta tappando la bocca. Tu lo saprai presto, saprai che quella donna, e chi è con lei là sotto, non comprende neanche una parola di quello che i due uomini, là sopra, stanno dicendo. 

«Ora, un soldato tedesco perquisisce una casa in cui si sospetta siano nascosti degli ebrei. Dove guarda il falco? Guarda nel fienile, guarda in soffitta, guarda in cantina, guarda dovunque lui si nasconderebbe. Ma ci sono molti luoghi in cui ad un falco non verrebbe mai in mente di nascondersi». 

La voce del colonnello è sempre meno allegra, sospira, sussurra. Il colonnello sa, dice, perché lui non pensa come un falco. Il colonnello sa pensare come un ratto. 

«Posso fumare la pipa anch’io?» chiede e il suo tono è di nuovo allegro. Il contadino, invece, lo è sempre meno, è sempre più titubante. Una pipa enorme, molto più grande di quella del contadino, quasi da cartone animato, stona un po’ con quell’aria sempre più tesa. Il colonnello svela le carte, mette sotto scacco il contadino che non può più tacere, piange, trema e indica il punto esatto in cui quei “ratti” si nascondono. 
«Ora ricomincerò a parlare francese e lei seguirà la commedia, è chiaro?»
Il contadino annuisce. 
«Non vi disturberemo più, allora, signore… signorine» i soldati puntano col fucile il pavimento, quel punto del pavimento: «Mi congedo e vi porgo i miei saluti, Adieu!» e nell’esatto momento in cui pronuncia quest’ultima parola partono gli spari. Silenzio. 

Ora tu sei fuori dalla casa, quello che c’è dentro non ti interessa più, guardi oltre, e vedi una ragazza correre. Corre, e piange, ma non si ferma, mentre il colonnello sta puntando il bersaglio. 
«Au revoir, Shosanna!» il colonnello sorride ancora. È di nuovo allegro. 

Tratto da “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino (2009)

Questa è la scena così come è. È esattamente quello che succede, esattamente quello che viene detto. Ma si può dire che finisca tutto qua? O c’è qualcos’altro, al di sotto, nascosto tra le parole, dietro agli sguardi e ai gesti, in quei silenzi, in quei sorrisi, che sta cercando di dirci che non basta fermarsi alla superficie di ciò che è e ciò che viene detto? Basta veramente registrare pari pari una manciata di parole e di azioni per comprendere tutto il resto del film? E delle storie? E della vita?

«I dialoghi esprimono molto di più di quello che significano le parole dette» scrive Robert McKee in “Dialoghi”. E così potremmo dire delle azioni. Le parole rivelano molto più di quello che mostrano sulla loro superficie. E noi, personaggi o essere umani in carne ossa, scegliamo cosa dire e non dire, quanto far trapelare, quanto nascondere, dialoghi vuoti o pieni di parole che esprimono in ogni momento sorrisi, sospiri, silenzi, gesti, sguardi che scavalcano l’informazione originaria e ci comunicano l’insieme. 

Cosa sta dicendo, oltre alle parole, Hans Landa quando abbassa la pistola puntata su Shosanna e, sorridendo, le urla “Au revoir”? Ha veramente mancato il bersaglio o quel saluto significa qualcosa di più che un semplice arrivederci? Poco prima, quando eravamo dentro casa e i due uomini erano ancora seduti intorno al tavolo, le parole del signor LaPadite ci hanno rivelato il nome d’arte del colonnello: il cacciatore di ebrei. Cacciare. E un cacciatore, più che prendere la preda, si diverte a inseguirla. Ai parenti di Shosanna, nascosti sotto le tavole del pavimento, Hans Landa ha detto addio. La preda è stata catturata. A Shosanna, invece, ha detto arrivederci. E Hans Landa sorride. Ha lasciato andare la preda. La caccia è appena iniziata. Due semplici parole, un addio e un arrivederci, acquisiscono un significato molto più ampio, che si costruisce quasi inconsciamente attraverso i non detti della scena. Hans Landa è sicuro, ha risolto l’enigma e non è un caso che prima di dire addio e arrivederci avesse tirato fuori la sua pipa, dalle dimensioni esagerate, che non è altro che la pipa di Sherlok Holmes. Il caso è chiuso. Il detective ha risolto il mistero. Una sola e semplice pipa, per quanto grande, esprime tutto questo. E non c’è bisogno di tradurlo in parole. Sempre McKee dice: «Come se avessi il potere della telepatia, capisci quello che sta succedendo nella loro interiorità, spesso meglio di quanto lo capiscano i personaggi stessi». Il tutto a creare una commedia, come dice lo stesso colonnello, perfettamente messa in scena e portata a termine. Il sipario si chiude. Arrivederci, Shosanna, alla prossima messa in scena. 

Nella vita di tutti i giorni, come nella finzione, anche noi siamo portati a selezionare quali parole dire e quali no e questo perché dietro a ogni nostra espressione c’è un’intenzione ben precisa. Sono pochi i casi in cui vogliamo dire esattamente quello che diciamo con le parole. E riuscire a captare quell’intenzione, quel non detto che si cela, ci permette di capire di fronte a chi ci troviamo, ci permette di avere quel “potere di telepatia” fondamentale per non ricevere solamente un contenuto, un’informazione, ma ben di più, un bisogno, un’emozione, un sentimento, un qualcosa che si trova molto più nel profondo di quello che semplici parole potrebbero comunicare. 

Siamo abituati a dare importanza alle parole, i libri che ne parlano ormai invadono le librerie. Libri che ti fanno riscoprire le etimologie, il significato delle singole parole, la loro storia e il loro scopo. E di certo le parole sono importanti, ma se le usiamo per trasmettere un’informazione non bastano. Non possiamo fare “spiegoni”, discorsi colmi di parole ogni volta che abbiamo bisogno di esprimere qualcosa che molto di più. Se nei film, come nei romanzi e ogni altra forma di narrazione sarebbe a dir poco noioso, nella vita reale sarebbe invece a dir poco estenuante. Spiegare. Hans Land non spiega niente, non trasmette molte informazioni, eppure il signor LaPadite ha ricevuto forte e chiaro il messaggio. Ecco che allora i non detti affiorano nei nostri discorsi, nei nostri gesti, perché non sempre abbiamo voglia di spiegare e spiegare, la nostra intenzione è un’altra. E se ci facciamo caso, capita spesso che l’intenzione venga comunque recepita, spesso anche i nostri messaggi vengono ricevuti forti e chiari. L’intenzione, implicita, che salva la conversazione anche quando sembra che nessuna abbia voglia di collaborare e fa recepire il messaggio: questa è la teoria di Paul Grice (la teoria delle massime conversazionali). Intenzioni che spesso non vengono “dette”, o “fatte”, ma che esprimono con una potenza ben più grande di una manciata di parole.  
Ciò non significa che tutto ciò che viene detto sia superfluo o superficie che nasconde. Lo stesso detto può essere non detto, e vuoti e pieni si intrecciano a creare una trama di significati che scavalca la forma. In quella stanza, Hans Landa entra con fare cordiale. Apparentemente, LaPadite presenta le sue tre figlie e Hans Landa fa loro un complimento. E Hans Landa è cordiale, Hans Landa fa un complimento, ma allo stesso tempo Hans Landa non smette di guardare le tre figlie, una per una. Dice che sono graziose, ma il suo sguardo inquisitore non si smuove. Quello che ha detto è un complimento, ma quale era l’intenzione? Quale non detto si cela dietro alla forma?

«I fatti possono essere così fuorvianti» dice Hans Landa: «mentre le chiacchiere, vere o false, sono spesso rivelatrici». Quello che succede, oggettivamente, nella scena del film come nella vita, può essere fuorviante, mentre le chiacchiere, il “come si dice” riguardo a ciò che succede, sia esso vero o falso, rivela l’intenzione, rivela l’espressione, scopre la superficie. 

Milena Fantoni, scrittrice e studentessa di linguistica italiana a Torino.
Ama leggere le storie degli altri: un giorno vorrebbe scrivere la sua.
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