D’amore e di altre stranezze (umane e non)

La finestra è socchiusa, se spingo un po’ riesco a infilare una zampa. Ancora un attimo e sono dentro. Queste vecchie case di Trastevere hanno finestre talmente malandate che persino un canarino riuscirebbe ad aprirle. Ho finito il mio giro mattutino sui tetti, e lui è già in cucina a spignattare, col suo solito modo di muoversi preciso e rilassato. In un attimo ha pelato una montagna di carote e adesso prepara il soufflé. Io adoro il soufflé di carote. Sì, lo so che detto da un gatto sembra strano, ma io sono vegetariano, e bisogna farsene una ragione.

Non è sempre stato così: quando vivevo in colonia, ero un formidabile cacciatore di uccellini, e adoravo i cartocci di polmone del macellaio, o le scatolette di cibo per gatti che la signora Amelia ci portava. Ma un giorno un gruppo di ragazzini della scuola di fronte quasi mi fece fuori a sassate. La signora Amelia li mise in fuga col suo bastone e mi portò di corsa dal veterinario. Ero abbastanza malconcio, rimasi lì per tanto tempo, e così ebbi modo di conoscere l’inquilino della gabbia di fronte, il signor Topini.
Il signor Topini è un tipo in gamba, sa un sacco di cose e ha sempre un’opinione su tutto, tanto che non crederesti che abbia passato metà della sua vita in un laboratorio. Fatto sta che, uscito dalla clinica, non riuscivo più a guardare i topi di strada allo stesso modo, e anche i passeri e i piccioni avevano perso tutta la loro attrattiva gastronomica. Non voler più mangiare altri animali mi procurò non pochi problemi. Rifiutavo il polmone e le scatolette e mi nutrivo solo di qualche pezzetto di formaggio che il salumiere ogni tanto mi allungava. Poi un giorno, mentre gironzolavo debole e smagrito sui tetti, da una finestra del secondo piano sentii provenire un profumo delizioso. Mi accorsi che era aperta, entrai circospetto e afferrai un fumante cardo in pastella da un vassoio. Ero affamato e così intento a divorarlo, che quando lui entrò in cucina mi colse di sorpresa. Rimase un attimo perplesso, poi scoppiò in una sonora risata. Scoprii che anche lui era vegetariano e diventammo inseparabili.

Scoprii anche che vivere insieme a un umano era estremamente piacevole. Adoravo le nostre serate intime passate sul divano davanti alla TV, ma, allo stesso tempo, mi piaceva tanto anche quando il nostro appartamento si riempiva di umani di tutti i tipi, di musica, di risate.
In quella casa, però, succedevano alcune cose che non riuscivo a spiegarmi. Per esempio, il telefono squillava spesso, e, se lui era in casa, alzava la cornetta e riagganciava senza rispondere. Quando non c’era, invece, la segreteria si riempiva di lunghi messaggi. Era sempre la stessa voce femminile, tono sommesso, un po’ triste, avrei detto. Se avessi potuto, avrei risposto io e le avrei consigliato di non chiamare più, perché tanto lui i messaggi li cancellava senza ascoltarli.

C’era anche la faccenda dei pacchi. Almeno una volta al mese, il portiere Eligio ne portava diversi su da noi. Io mi emozionavo tantissimo, ero elettrizzato al pensiero di poter strappare la carta con gli artigli, ispezionare con curiosità il contenuto e infine usare la scatola vuota come nascondiglio. Ma rimanevo sempre deluso: lui rifiutava i doni con fermezza senza degnarli di uno sguardo, e, con mio enorme disappunto, li cedeva al buon Eligio che si fregava le mani dalla contentezza. Ad ogni modo, era evidente che né le telefonate né i regali erano graditi, perché lui dopo rimaneva pensieroso per ore, e dovevo ricorrere a tutto il mio repertorio di moine per riuscire a strappargli un sorriso.
Nonostante questi episodi, la nostra convivenza scorreva senza scosse, fino a quando Tommaso non irruppe nelle nostre vite.
Lo capii dalla prima volta che mise piede dentro casa nostra, insieme ad un gruppo di amici: nel preciso istante in cui i loro occhi si incrociarono ebbi la netta sensazione che nulla sarebbe stato come prima. La prima volta che li colsi, quegli sguardi, mi sembrarono fuori luogo. “Non è questo il modo in cui si guardano due maschi”, pensai. Ad esempio, io e Guercio, il gatto rosso del barbiere, eravamo nemici giurati, ci lanciavamo occhiate fulminanti e coglievamo ogni pretesto per darcele di santa ragione. Una volta che ero particolarmente ispirato ero riuscito persino a staccargli un pezzetto di orecchio.
Quando lui si perdeva negli occhi di Tommaso, invece, mi sembrava molto più simile a me quando morivo dietro a Mafalda, la persiana del superattico, e al profumo di borotalco della sua coda vaporosa.
Beh, sta di fatto che a questa cosa a un certo punto mi abituai e non ci feci più caso. In fondo, mi dissi, un gatto vegetariano aveva ben poco da meravigliarsi delle stranezze altrui. E poi, da quando c’era Tommaso, lui era molto più felice. Solo quelle telefonate, che arrivavano a tutte le ore, riuscivano ancora a rabbuiarlo.
Tommaso rimaneva sempre più spesso da noi, e capitava ogni tanto che io e lui rimanessimo in casa da soli. In una di quelle occasioni, il telefono suonò insistentemente come al solito, e all’ennesimo squillo Tommaso, esasperato, rispose. All’inizio sembrò sorpreso, poi incuriosito. Fatto sta che rimase a parlare con la donna all’altro capo del filo per molto tempo, e quando riattaccò aveva gli occhi lucidi. Quando lui rientrò, discussero a lungo, l’espressione seria. Tommaso gli parlava concitato, lui fissava il vuoto senza rispondere.

Passarono i giorni, e le cose sembrarono tornare lentamente alla normalità.
Poi, un pomeriggio, Tommaso rientrò prima del solito, ma mi sembrava nervoso, agitato, benché di buon umore. Dopo pochi minuti suonò il campanello e Tommaso aprì. Dal pianerottolo una donna minuta gli puntò addosso uno sguardo limpido e sereno. Si studiarono per un po’, poi lui si fece da parte per lasciarla entrare. Mi avvicinai anch’io incuriosito, la coda alta, e lei mi allungò una carezza. Aveva un buon profumo e un viso stranamente familiare. Chiacchierava con Tommaso, riconobbi la voce che da mesi lasciava messaggi alla nostra segreteria. Rimasi stupito, l’ avevo immaginata più giovane, invece aveva già parecchi fili bianchi tra i capelli.
Lei e Tommaso entrarono in cucina: erano già entrati in confidenza, si allacciarono i grembiuli, e iniziarono a preparare la cena. Mi sembrò che il tempo volasse, mentre li osservavo muoversi tra i fornelli, ridendo come se si conoscessero da sempre. Lo scatto della serratura della porta di’ ingresso li fece trasalire,; lui entrò in casa. Tommaso si affacciò sull’uscio della cucina, lei si materializzò alle sue spalle. Mi sembrò improvvisamente uno scricciolo accanto a loro, così alti.
Lui la vide, e rimase di stucco. La cartella di cuoio cadde con un tonfo pesante sul pavimento. La fissava impietrito, la mascella contratta, le mani serrate. Lei aveva gli occhi lucidi, sembrava incerta., poi di scatto rientrò in cucina e affondò un cucchiaio nel gâteau di patate. Si avvicinò a lui risoluta, avvicinando il cucchiaio al suo viso. Lui aprì la bocca, riluttante, quasi per riflesso infantile. Assaporò il boccone, e fu un attimo. Crollò tra le braccia di quella donna così piccina, le spalle tremanti, e il viso affondato nel suo collo.
Tommaso mi sorrise, si avvicinò e mi prese in braccio; insieme ci dirigemmo verso la cucina.


Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera