Da quel che ricordava era sempre stata una donna di cera, bizzarro certo, ma basti pensare che nel luogo dove viveva una come lei non era bizzarra. Quella mattina un brusio leggerissimo si faceva strada tra gli spessi vetri dell’appartamento e per qualche frazione di secondo sembrava addirittura che li avesse rotti, così da irrompere nella stanza senza chiedere il permesso. Ascoltandolo con attenzione era più un rumore confuso, come di fresche parole e risa.
A lei il silenzio non era mai piaciuto, anzi, lo odiava. Lo immaginava come uno di quei parassiti dei quali si sente tanto parlare, quelli che si infiltrano dietro gli armadi dove non si ripone altro che le vecchie lenzuola e i vestiti che non vanno più. Aspettano lì senza farsi vedere e prima che qualcuno apra uno di quegli armadi polverosi ormai si sono già diffusi e una grossa chiazza di muffa ha piantato le tende coprendo metà del muro. Era convinta che se fosse rimasta troppo a lungo in silenzio quello avrebbe strisciato sotto tutti i mobili dell’appartamento fino a foderare le pareti di uno spesso strato grigiastro e maleodorante.
La parola odio l’aveva imparata da sua madre che a sua volta l’aveva imparata leggendo un libro per bambini, non aveva la minima idea di cosa volesse dire ma le intimò solo di non provarlo mai dato che era un brutto sentimento. Il silenzio però era sicura di odiarlo, dato che è una cosa cattiva e l’odio è un sentimento cattivo. Con uno scatto repentino, quella mattina, si era girata verso la parete di destra. Le tapparelle polverose delle finestre erano sempre debolmente alzate, non le aveva mai aperte del tutto. Non avrebbe potuto. Si era alzata, giusto il tempo di accucciarsi contro la parete di sinistra. Non c’erano stanze, non c’erano pareti all’interno, solo un grosso numero di mobili e oggetti posizionati tutti contro il muro da quel lato dell’appartamento.
Lì il sole non arrivava mai, neppure alzando la tapparella qualche centimetro in più.
Spesso immaginava come sarebbe stato lasciarsi accarezzare da quella luce delicata e una volta si era dovuta legare alla sedia della cucina tanto desiderava spalancare le finestre. Si sarebbe sciolta, certo non subito, ma lo avrebbe fatto. Il suo delicato corpicino di cera avrebbe iniziato a gocciolare e gocciolare, fino a che di lei non sarebbe rimasto niente che una chiazza informe sul pavimento. In quel luogo se una donna di cera si fosse sciolta, e la notizia circolata di pettegolezzo in pettegolezzo, non avrebbe destato alcun tipo di stupore.
Ne succedevano di fatti singolari, ogni giorno. Non esisteva essere fatto di carne e ossa, non uno con un cuore pulsante e ahimè l’unica cosa che quel corpo di cera non le permetteva di fare era provare emozioni. Non una volta che avesse percepito sul suo corpo una sensazione diversa dal marciume freddo di quella cera densa. Non conosceva le emozioni. Come avrebbe potuto fare? Non aveva un cuore. Alcune le aveva imparate leggendole sui libri, altre le erano state insegnate quando era piccola e con il passare degli anni si era sforzata di manifestarle in qualunque momento le sembrasse giusto provare qualcosa. Quella mattina però un nuovo ed inaspettato rumore ovattato si fece strada nella stanza e bastò il tempo di appoggiare l’orecchio alla parete che lo udì con più chiarezza. Risuonava dalla casa accanto. Era un fruscio, un rumore denso di cartone, lo stesso che si sente quando striscia contro il pavimento e lei ne era incuriosita, estremamente incuriosita.
Non le sembrò inopportuno andare a curiosare, per quel che ne sapeva la casa era vuota e, anche se prima di quel momento qualcuno avesse vissuto lì, dall’esterno non si sentiva alcun rumore e l’ammasso di lettere ingiallite e piene di macchioline umide l’aveva convinta che i vecchi proprietari se ne erano andati e quel pomeriggio avevano portato via le ultime cose rimaste. Quando entrò fu quasi certa di essere morta sul colpo. Prima pensò che si fosse fatto giorno e le finestre spalancate all’interno avessero fatto entrare così tanta luce da scioglierla, ma no, era ancora sera. Le venne anche in mente che forse quella casa non aveva il pavimento e lei era precipitata a terra frantumandosi in tanti piccoli pezzi. Quando riaprì gli occhi fu poi certa di non essere affatto morta ma una strana sensazione, un prurito leggero, le risaliva piano lungo il corpo.Era come veder sbocciare uno di quei piccoli fiori primaverili tra l’erba scura e verdognola in inverno. Quella sensazione palpabile di vita e morte come opposti su uno stesso campo di battaglia. Lei era quel fiorellino delicato e irrompeva dentro di lei, per la prima volta in tutta la sua vita, quella forza frizzantina che le avrebbe dato la spinta di sbocciare tra il marciume dell’erba fredda che era la cera del suo corpo. Non sapeva da dove veniva ma riempiva la stanza, rendeva l’aria così densa e avvolgente che non volle più muovere un passo, desiderava lasciarsi cullare dolcemente. Un marchingegno ferroso e polveroso se e ne stava appoggiato ad una delle pareti, la guardava come per invitarla ad avvicinarsi e lei non seppe stare ferma. Quel dolce tepore veniva da lì, non sapeva come ma quello strano oggetto emanava l’unica parvenza di qualcosa che non fosse un freddo assordante.
Nessuno seppe mai cosa le passò per la testa lì per lì, ma come biasimarla.
Cercava disperatamente qualcosa che la facesse sentire viva e in quel preciso momento quel termosifone era per lei come una pietra preziosa. Voleva toccarlo, voleva farsi accarezzare, lasciarsi trasportare, e fu forse quell’insieme di idee confuse che la spinse ad avvicinarsi troppo. Posò la piccola mano sul ferro incandescente e le bastò un attimo per capire che si era completamente sciolta. Era bastato un attimo e della mano non era rimasta che cera gocciolante. Non si mise a piangere, iniziò a sorridere. Sorrideva, l’aveva sentito, aveva sentito quel calore inebriante e poi aveva sentito come la cera si era sciolta sotto i suoi occhi. Fu come una scarica di adrenalina, ne voleva ancora.
Cosa poteva farsene di due mani di cera? Alla fine non le servivano a un bel niente e in un attimo anche l’altra sparì. Pensò più in fretta, quasi in maniera automatica, a cosa potesse servirle avere due gambe di cera. Lei voleva restare lì, non aveva intenzione di muoversi. I pensieri le rimbombavano nella mente, li sentiva scontrarsi e poi schiantarsi l’uno contro l’altro, cercando un modo per sciogliere quelle gambe dure e inutili e lei voleva godere di quello spettacolo.
Non desiderava altro che osservare la cera sciogliersi e depositarsi sul pavimento. Si sentiva viva, sentiva di esistere. Nessuno seppe realmente cosa successe dopo, nessuno era lì con lei. Qualcuno affermò di aver conosciuto una volta una ragazza di cera che stava al terzo piano, di averci scambiato due parole, sembrava triste. Di lei però nessuno si curò più, nemmeno sua madre, convinta che il silenzio finalmente fosse giunto a farle un saluto.
Coloro che avevano abitato al terzo piano però, dopo aver finito di portare via l’accumulo di lettere fuori dalla porta accusarono che sul pavimento vicino al termosifone si era formata una chiazza unticcia e di cattivo odore. Chiamarono il signore del quarto piano che scese in fretta e furia ad osservare cosa fosse, ma niente paura, era solo un grosso accumulo di cera. Li rassicurò dicendo che ci sarebbero voluti dieci minuti e in un attimo il pavimento sarebbe tornato come nuovo.
Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera