Giorni difficili

– Ehi scusa giovane, hai visto come hai parcheggiato?
– Sì, certo.
– Ma chi ti ha dato la patente?
– Perché?
– Non pensi di dover spostare la macchina? Intralcia il mio passaggio.
– Scusa, non è il momento, ci metto giusto due minuti. Il tempo di entrare in casa, prendere una cosa, e poi me ne vado. Sono solo dieci centimetri, forza, ci passi!
– Chi ti credi di essere tu, per dirmi cosa posso o non posso fare io?
– Guarda, davvero, non è giornata. Come ho già detto, due minuti e me ne vado.
– Tu non hai capito niente! Te ne devi andare subito, coglione!
– Per la millesima volta, non è giornata. Lasciami in pace.
– Adesso vedi cosa succede a non darmi ascolto!
– Ma cosa stai facendo? Togli quella mano dalla mia spalla!
– No! Io la mano la metto dove mi pare e piace. Vattene.
– Ti ho detto di toglierla!
– No!

Qui, l’inizio della fine. 
Tic, tac. Tic, tac. Tic, tac. 
Un ronzio, uno sprazzo di luce, il buio. Un ronzio, uno sprazzo di luce, il buio. 

Sono circa due ore che mi trovo in questa stanza, sdraiato su una lastra di ghiaccio, immobile, ad osservare la non luce prodotta dalla lampada al neon fissa sulla mia testa. Tic, tac. Tic, tac. Un ronzio, uno sprazzo di luce, il buio. Un ronzio, uno sprazzo di luce, il buio. Si spegne, si accende. Si spegne, si accende. Un loop infinito. C’è solo questa luce a farmi compagnia, intorno a me, il nulla. Ma come biasimarli, non potevano permettere che recassi danno a qualcun altro lasciandomi in una stanza doppia dopo quello che ho fatto, pover’uomo. Con l’ultimo pugno penso di avergli rotto una costola, ma d’altronde, se l’è cercata.  Io ci ho provato a dirgli di smetterla, di stare zitto, che non era il momento adatto per lamentarsi di come avevo parcheggiato. Che saranno mai dieci centimetri di auto davanti al suo cancello, ci passava pure un elefante. Ma lui proprio non ne voleva sapere di chiudere quella bocca. L’unica cosa che gli avevo chiesto era di far silenzio e aspettare due minuti e, invece, ha continuato a blaterale cose inutili, fino a quando si è permesso di toccarmi con quella mano sudicia. Gliel’avevo detto che non era giornata. Non me la doveva mettere la mano sulla spalla. L’ultima cosa che ricordo prima dell’arrivo della polizia e dell’ambulanza, è stato l’urlo di pietà che ha emesso poco prima di cedere ormai esamine a terra. Il volto era coperto di sangue, a forza di sferrar pugni sulla bocca gli è pure volato via qualche dente. Il colpo peggiore, comunque, è stato all’addome. 

Era partita male quella giornata, come le ultime 247 che l’hanno preceduta. L’ennesima giornata storta di una settimana di merda, di un mese del cazzo, di un anno da cancellare. In cuor mio, so di aver sbagliato. Avrei dovuto ignorarlo un altro po’, entrare in casa, prendere quello che dovevo prendere e poi andarmene o spostare subito la macchina, ma si trattava di due minuti. Due stupidi minuti. 

Non sono state le sue parole a farmi del male, ma il gesto della mano. Il fatto che mi abbia toccato. Perché quella mano, come ha fatto lui, me l’han messa addosso quegli altri ogni giorno, negli ultimi otto mesi. Mai una volta che fosse per darmi supporto, solo per farmi del male. Così quando quell’uomo stamattina mi ha toccato, non ci ho più visto. Ho riversato su di lui tutta la rabbia che covavo dentro ormai da troppo tempo. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, e che vaso! 
Non sono mai stato capace di reagire, un po’ perché sono il classico mingherlino con delle foglie al posto dei muscoli, un po’ perché ho sempre pensato che prima o poi quelli avrebbero smesso. Credevo fosse sufficiente lasciarli liberi di fare senza reagire, i primi giorni, per far sì che si stancassero e mi lasciassero in pace. Ma non è andata così, purtroppo. 
Otto mesi fa quelli che dovevano essere i miei compagni di classe, pronti a condividere con me risate e interrogazioni, si sono rivelati un gruppo di bulli schifosi. 
Mi hanno preso di mira qualche settimana dopo l’inizio della scuola, ero nuovo in quella classe. Arrivato a Malè da non più di tre settimane, non avevo ancora avuto modo di integrarmi a dovere con i miei compagni. Sono sempre stato un ragazzo di poche parole, amavo più leggerle che pronunciarle. Forse, uno dei motivi che hanno portato all’assurda decisione di utilizzarmi come bersaglio dei loro soprusi è stato proprio questo, il fatto che passassi ore e ore con la faccia immersa nei libri, lì in un angolo, zitto, ad assaporare tutto ciò che i migliori autori avessero da offrirmi. 
Ho sempre avuto un amore particolare per la storia e vissuti reali, dove gli uomini, credendosi padroni del mondo, creavano e distruggevano tutto ciò che li circondava, senza rendersi conto di essere particelle perse nell’infinito. 
Mi sono chiesto spesso, in questi mesi, cosa vincessero i miei compagni una volta finito di infilarmi la faccia nella tazza del cesso. Che tipo di piacere potessero trarre dal far male a una persona e vederla soffrire. Non sono riuscito a darmi una risposta quantomeno plausibile, che potesse anche solo in minima parte giustificare i soprusi che subivo ogni giorno.
In quel gruppo di cinque deficienti, quello che aveva il ruolo di leader era Giacomo. Gli altri erano inutili ammassi di ossa e ciccia incapaci di ragionare con la propria testa, succubi di un personaggio viziato e troppo sicuro di sé. Lui era il tipico figlio di papà, sbruffone e consapevole di avere le spalle protette in qualsiasi situazione, non perdeva occasione per vantarsi e rinfacciare agli altri quanto fosse figo.

La prima volta che mi avevano preso di mira era stato durante l’intervallo. Quasi tutta la classe era scesa in giardino, io, come altri due o tre compagni, ero rimasto in aula, assorto come sempre in una delle mie letture. Ero talmente concentrato da non accorgermi che Giacomo mi aveva rivolto la parola. Fu la mia non risposta a scatenare quella prima ingiustizia. Si appostarono in bagno, in attesa del mio arrivo. Una volta entrato, mi accerchiarono. Riccardo e Marco mi bloccarono le braccia, Nicola e Francesco le gambe. Giacomo ovviamente si premurò di afferrarmi i capelli come se l’unica cosa che dovesse rimanermi attaccata alla testa fosse il cervello. Nel giro di un secondo mi ritrovai piegato in due, con la testa sott’acqua. Era successo tutto così velocemente che non ero riuscito nemmeno a rendermi conto di cosa stesse accadendo. Sentivo Giacomo urlare, ma non riuscivo a comprendere le parole. Fino a quando decise di farmi respirare. Mi fece uscire dall’acqua e guardandomi fisso negli occhi, col veleno al posto delle pupille disse: 

– Hai visto cosa succede a chi si permette di non rispondermi?
– Lasciatemi in pace!
– Ti ho fatto una domanda e tu hai fatto finta di non sentirmi!
– Non ti ho sentito, stavo leggendo! Smettetela, basta!
– Sono io a decidere quando smettere.

Nel giro di qualche secondo mi ritrovai ancora una volta nella tazza.
Col passare dei giorni iniziai a comprendere che ogni pretesto era buono per comportarsi in quel modo. Non c’era un vero motivo per il male che stavo subendo, semplicemente ero l’ultimo arrivato, quello solo, senza amici pronto a difenderlo, troppo impaurito per chiedere aiuto. Le prime settimane, per riuscire ad affrontare quei momenti, quando la mia faccia era nella tazza del cesso, dentro me pensavo Forza, non mollare, questa è l’ultima volta, poi smettono, ma loro continuavano imperterriti. Avevo provato a reagire anche un paio di volte, ma per quanta forza potessi mettere nel cercare di difendermi, era nulla contro loro cinque. 
Le settimane passavano e con loro passava anche la voglia di alzarmi dal letto. A casa mamma e papà avevano intuito che c’era qualcosa che non andava, ma quando provavano a chiedermi spiegazioni, mi chiudevo a riccio. Io per vergogna di quello che stavo subendo mi rifiutavo di rispondere e loro trovavano nei miei diciott’anni la giustificazione ai miei silenzi. 
Riuscivo a trovare un po’ di pace soltanto in un posto, a circa mezz’ora di macchina da casa mia. In quel luogo non c’era nessuno pronto a maltrattarmi, farmi domande o guardarmi con sospetto. 
Avevo trovato un angolo di paradiso vicino alle Cascate di Saent, in Val di Rabbi. Lì, su una panchina, trascorrevo i miei pomeriggi ad immergermi nei libri, circondato dalla natura. Riuscivo ad estraniarmi dal mondo circostante, come se una volta arrivato li, entrassi in un altro universo. Tutte le paure, ingiustizie, fragilità, restavano chiuse fuori e io, in quel verde e in quelle pagine, riuscivo a trovare l’ancora di salvezza.
Per questo, quando stamattina mi sono accorto di aver dimenticato il libro in casa, ho lasciato la macchina parcheggiata davanti al cancello di quell’uomo. Sicuro del fatto di impiegarci qualche minuto per entrare, prendere il libro, andarmene. Bastavano due minuti, erano solo dieci centimetri in più. E invece ora mi trovo qui, solo in questa stanza, consapevole di aver commesso l’errore più grande di tutta la mia vita. Ho riversato mesi di rabbia e frustrazioni sulla persona sbagliata. Non so cosa mi sia successo, forse ho reagito perché per la prima volta in otto mesi non ero uno contro cinque, ma solo io e lui; forse invece, l’ho colpito perché ero stanco di sentire qualcuno dirmi cosa dovevo o non dovevo fare. È bastato un niente per tornare ad essere quell’involucro fragile e consumato colmo di insicurezze. Per quanto possa avere la robustezza di una formica, nello sferrare quei pugni, non mi sono mai sentito così forte. 

Uno, due, tre, quattro, cinque volte. Non riuscivo a fermarmi. Era come se davanti a me avessi avuto Giacomo, Marco, Riccardo, Francesco e Nicola e, per una volta, ero io a decidere il loro destino, scrivere la storia. Per la prima volta dopo tanto, troppo tempo, mi sono sentito invincibile. Peccato però, che a pagarne le conseguenze, sia stata un’altra persona. 

Per mesi mi sono chiesto cosa potesse provare un uomo nel ferirne un altro, non concepivo come fosse così semplice far del male a qualcuno e procedere indisturbati con la propria vita. Se solo potessi tornare indietro nel tempo, riscriverei ogni singolo momento degli ultimi otto mesi. 
Ma purtroppo con i se e con i ma non si va da nessuna parte.
È giusto che paghi per il male che ho fatto. Devo accettarne le conseguenze. 
Un paio d’ore fa ho smesso di avere contatti con il mondo esterno, mi hanno chiuso in questa cella e se ne sono andati. Sento dei passi nell’altra stanza, chissà se si ricordano che sono qui.
A breve dovrebbe arrivare il mio avvocato, speriamo porti buone notizie. Eccolo, forse è proprio lui quell’uomo che sento aldilà della porta…

– Signor Martini, buongiorno. Sono l’avvocato d’ufficio assegnato al suo caso. Dobbiamo parlare.
– Buongiorno. Sì, la stavo aspettando.
– L’accusa è di omicidio colposo. Il pugno all’addome ha provoco la rottura di alcune costole, hanno lesionato i polmoni, causando una emorragia interna. È morto prima di arrivare in ospedale. Farò il possibile per assicurarle delle attenuanti, ma la attendono giorni difficili.


Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Clara Cerri