Il professor Arturo Ramiro Coclite era innanzitutto un uomo silenzioso. Lo era sempre stato, lo sapevano tutti nel quartiere che preferiva dire poche parole.
Era capace di lasciare un senso di incompiuto in tutte le frasi, come dei finali aperti, disponibili a molte possibili interpretazioni, sebbene lui in mente, per consuetudine, ne avesse solo una, e si poteva ben dire che, con tutta probabilità, si trattasse della più saggia. Era sobriamente avvolto dal suo fascino e dal suo fumo, per gran parte della giornata teneva le Marlboro light in bilico tra gli ultimi millimetri del dito indice e del medio e, talvolta, sul bordo delle labbra fini, ricoperte di folti baffi grigi.
Sorrideva sì, di tanto in tanto, ma con una delicatezza vagamente precaria, come la sua gestualità, appesa alla logica di pensieri sottili e variabili. Da qualsiasi distanza lo si guardasse, persino la più intima, c’era qualche cosa che restava piuttosto lontana in lui, qualche dettaglio lasciato dentro un libro magari, degli accordi musicale, una scena di un film.
Riusciva tuttavia, nonostante le discrezionali assenze d’attenzione, ad essere all’occorrenza accessibile e forse addirittura affettuoso.
Era compostamente consumato dagli anni che avevano reso i suoi occhi celesti più tristi e più intensi ma era ancora forte nella sua impalcatura altissima e fiera. Lo si distingueva soprattutto per quel certo disordine sparso tra i capelli confusamente brizzolati e delle giacche di norma molto più grandi del dovuto. Quando non era in classe era in strada, a passeggiare nella sua andatura pacata, quando non era in strada era a casa.
Era nato nel 1956 a Via Ignazio Persico numero sei, nel rione di Garbatella, dove era rimasto per tutti i sessantatré anni seguenti.
Era professore di Lettere nel Liceo Socrate, come la moglie, Paolina, prematuramente scomparsa.
Dalla sua morte, il Professor Coclite aveva continuato a fare tutto ciò che doveva essere fatto, ma senza più piacere né sentimento: anche quelli erano scivolati via e si erano infilati sotto terra, da qualche parte, lì dov’era lei.
La sua vita era scandita da meticolose abitudini da seguire con scrupolo per non rischiare di trovare del tempo da lasciare al dolore: la domenica ad esempio, c’era l’acquisto del giornale nelle prime ore della mattina.
Quel fatto lì successe proprio di domenica.
Era il 13 luglio e quel giorno la Repubblica riportava un curiosissimo speciale nella pagina della Cronaca locale. Era un articolo dedicato a una strana storia: nelle cantine di una casa di decaduti nobili romani, a Largo del Teatro Valle, era stato trovato un piccolo cofanetto con delle foto d’epoca di alcuni luoghi romani.
Tra queste foto si celava un rebus il quale, una volta risolto, avrebbe portato a trovare un costoso gioiello appartenente a Giovanna Del Grillo, la quale poco prima di morire lo aveva nascosto per consegnarlo a colui il quale sarebbe stato capace di svelare il promettente mistero.
Il professor Coclite ritagliò le sette foto e catturato dall’originalità di quel gioco, le osservò a lungo. Le foto erano così belle da sembrare stampe in filigrana ed erano state scattate tutte nel giorno di Pasqua di sette anni consecutivi, tra il 1897 e il 1903.
Tra una sigaretta e l’altra, appoggiato alla scrivania del suo studio, cercò le date in cui la Pasqua cadeva nei calendari di quei sette anni e provò ad associarle al numero di archi e colonne presenti nei paesaggi. Ne uscirono fuori delle coordinate che portavano ad un indirizzo sul Lungo Tevere Marcello Diaz e, più precisamente, al Circolo Canottieri Lazio.
Persuaso di aver trovato una traccia, scese in fretta i quattro piani del palazzo, prese la sua macchina e attraversò la città accecata dal sole tutto disteso sulle mura, le strade ed il cemento roventi.
Arrivò a destinazione, e trovò il piccolo molo del Circolo deserto e abbandonato al totale silenzio, era sospeso nella luce terza, compatta e uniforme di quel primo pomeriggio romano.
Mentre avanzava nell’ameno giardino della struttura, dietro uno dei pioppi, intravide d’improvviso una donna appoggiata con la spalla al tronco.
Aveva il corpo rotondo, un’apparenza giovane ma antica, lo sguardo fisso su di lui, gli occhi grandi e scuri. Portava un abito lungo con il corpetto stretto sul busto e un’amplia gonna a cerchio drappeggiata di seta e tulle, era nera come il lutto e aveva sulla testa un cappello decorato di perle e velluti che le copriva gran parte del viso.
Lei gli andò incontro, senza dire una parola, e lo prese per mano con agghiacciante decisione, Arturo sentì la pelle fredda della donna sotto la sua che già si scioglieva di sudore e paura.
La donna lo accompagnò giù al ripostiglio delle canoe, aprì la porta. I gabbiani intorno volteggiavano come vespe, in lontananza l’architettura imponente dei ponti tiberini incorniciava solenne l’orizzonte. Dentro la stanza buia e umida, il pavimento in legno scricchiolava sotto i passi cauti del professore, i passi di lei, invece, non producevano alcun rumore.
Arturo spostò uno dei remi, quello che lei gli indicò e sotto al quale il pavimento era leggermente rialzato. Il professor Coclite lo sollevò e vi trovò un altro cofanetto, gemello e identico a quello della foto del giornale.
Fu in quel momento che la donna parlò per la prima volta e sussurrando con voce calmissima disse:
– Ben arrivato, sei stato bravo a trovarmi. Se indovinerai la risposta al quesito che sto per porti potrai avere ciò che si trova qui dentro.
E poi disse:
– Un bivio porta a due paesi diversi: in uno ci sono solo persone che dicono la verità, nell’altro solo persone che mentono. Un viandante vuole sapere quale dei due è il paese della verità. Incrocia un uomo che sta venendo da uno dei due paesi e glielo chiede. Dimmi, quale domanda gli rivolge per sapere con certezza quale tra i due è il paese della verità?
Il professor Coclite restò a fissare attonito la donna, non riusciva a credere che quella situazione stesse avvenendo. Il corpo della marchesa era come rarefatto e inquietante e tuttavia, al contempo, la donna era bellissima e ammaliante. Mano a mano che i secondi passavano, lei indietreggiava con i suoi piccoli piedi decorati da scarpe minuscole e smaltate e si allontanava da lui, senza smettere neanche un istante di guardarlo.
Già era a metà del ponticello che separava il molo dalla sponda del fiume, e subito dopo si era appoggiata sulle rive, il bordo della gonna si bagnava lievemente nelle acque del fiume, il silenzio tetro la inghiottiva nell’atmosfera, già quasi sembrava volesse immergersi.
Il professor Coclite terrorizzato ma determinato a rispondere, le gridò:
– La risposta è questa: il viandante deve chiedere: “portami al tuo paese”. Perché se l’uomo dice la verità lo porterà proprio nel paese della verità. Se mente, lo porterà comunque nel paese della verità.
La donna si rialzò e lo raggiunse a metà del ponte, quando aprì il cofanetto tirò fuori una collana d’oro di diamanti rossi che sfavillò tanto da portare ancora più calore al calore della città. Arturo la strinse nelle mani e pensò a quanto avrebbe voluto regalarla alla moglie e a quante cose avrebbe potuto comprare con il valore di quel gioiello.
Però, mentre ipnotizzato la metteva nella tasca, la collana scivolò giù e si infilò nelle fessure del ponte, affondando nelle melmose acque sottostanti.
La donna lo guardò seria e rassicurante e poi disse:
– Non provare neanche a recuperarla Arturo, quella collana non esiste. Sono qui per dirti che tua moglie mi ha parlato del romanzo che non è riuscita a finire. Torna a casa e termina quello che chiede di essere raccontato. L’oro più prezioso è quello che creiamo.
Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera.