Il complesso dell’impostore

L’odore di burro e cannella dei toast francesi aleggiava ancora nel salotto invaso dalla luce bianca del mattino, mescolandosi a quello della lavanda fresca che Lorraine aveva deposto ovunque. Anton si aggirava assonnato tra le pile di libri accatastate dietro al sofà, alla ricerca di uno dei suoi gialli, che amava per la loro capacità di nutrire il suo bisogno di conclusioni ordinate e soluzioni logiche.
La voce tremula di Lorraine arrivava dalla stanza da bagno, mescolando un’aria di Puccini allo scrosciare dell’acqua.
– Ah! Trovato!
Anton si chinò per sfilare il libro dal cumulo precario di volumi, cercando di controllare il tremito delle mani.
Il suono imperioso del campanello lo fece trasalire. Si alzò a fatica e raggiunse la porta d’ingresso trascinando stancamente i piedi. Sull’uscio non trovò nessuno. Il vento spazzava i rami delle querce nel giardino di Villa Saunier, spargendo la pioggia notturna sul viale. Il prato curato luccicava di goccioloni e pareva che l’ordine meticoloso che Anton Saunier impartiva su tutto il mondo proseguisse indisturbato. Mentre stava per richiudere il portone, l’occhio gli cadde su una busta da lettera gialla, deposta sullo zerbino. Con un ultimo sguardo torvo al giardino deserto, la raccolse. Inforcò gli occhiali appesi al collo e rigirò la busta tra le mani da ogni lato alla ricerca del mittente, ma non vi erano né una scritta né un riconoscimento. Con l’aiuto di un tagliacarte, la aprì e ne estrasse un plico di fogli. Riconoscendo l’ombra familiare di una partitura, girò la prima pagina. Ecco un altro mitomane pigia-tasti che inviava al maestro d’orchestra Anton Saunier il suo insulso brano di musica d’insieme, degno a malapena di essere suonato alla festa del paese.
Saltò all’ultima pagina, pronto a cestinare l’incartamento senza disturbarsi a leggerlo più del necessario. Nell’angolo in fondo a destra c’era una firma, vergata a caratteri minuscoli. Quando lesse il nome, il suo respiro si fece un metronomo che ondeggiava velocissimo nel petto. Si aggrappò al mobiletto del telefono.
Maurice Langlois.
Sentì la gola incavarsi per la nausea. Non pronunciava quel nome a voce alta dal 1988. Da allora erano trascorsi trentuno anni di silenzio, dopo che un sobbalzo e un vuoto d’aria avevano segnato la fine improvvisa della sua carriera. Ricordava le luci gialle del camerino in cui il percussionista era entrato per dirgli: “Non possiamo iniziare, il pianista non si trova.” Poteva sentire ancora forte e chiaro dentro di sé il nervosismo per l’imminente esibizione, rimandata di mezz’ora in mezz’ora, senza che avesse la minima idea di dove fosse finito quello che a ragion veduta chiamava il suo migliore amico, finché il teatro non si era svuotato.
Non avrebbe mai dimenticato quel nodo stretto allo stomaco, quando molti giorni dopo il telefono squillava incessantemente, ma di Maurice non c’era traccia e tutti lo guardavano pretendendo che desse un attacco, che con la sua bacchetta indicasse come muoversi in quel requiem che gravava nell’aria, tra le parole. Invece era rimasto in un angolo, rigirando tra le mani l’unico mistero irrisolto.
Si avvicinò al suo storico Bechstein, si sedette e scoprì la tastiera. Per anni, non aveva fatto altro: portare alla ribalta le composizioni magistrali di Maurice Langlois. Sollevò le mani, pesanti come piombo, e con un sospiro che sembrò raccogliere da terra, dai piedi poggiati sui pedali, incominciò a suonare.
La musica fluida di Maurice volteggiò nell’aria ferma del mattino, travolgendolo in una commozione profonda, trascinandolo in un vortice di volute complesse, ma familiari. Il ricordo di lavori passati si sommava alla meraviglia per una nuova composizione, che attingeva ai maestri di tutti i tempi e li citava, chiamando a raccolta le loro cifre riconoscibili. In un pianto sommesso, Anton seguiva il ritmo confortevole, dimentico del dolore da arto fantasma che la scomparsa di Maurice aveva causato in tutti questi anni. Riusciva a vedere la partitura che si disegnava nell’aria, apprezzandone sottigliezze e sfumature. Maurice ritornava prepotente, figura eterna e leggendaria, ascritto ad un Olimpo che Anton venerava con franchezza più dei suoi stessi figli. Quando l’ultima nota, grave e prolungata, si spense, Lorraine, entrata di soppiatto in salotto, esclamò:
– Io questa musica la conosco!
– È di Maurice.
– Impossibile!
– C’è la sua firma, vedi? L’ho trovato alla porta.
– Lui è… vivo?
– Ovunque si trovi, è un messaggio.
– Che cosa dice?
– Non so. Non capisco chi lo abbia mandato, perché sia arrivato a me adesso, dopo tutto questo tempo.
– Forse è un messaggio che soltanto tu puoi comprendere.
– Intendi…
– Crittografia musicale, certo. Non sarebbe il primo a nascondere un messaggio in uno spartito: Bach, Schumann, Haydn, Ravel.
– Hanno soltanto firmato le loro composizioni con una sigla, iniziali che corrispondono al nome delle note.
Anton provò a piegare il primo foglio come per formare un ventaglio di carta, cercando di vedere se le note, sovrapposte, formassero delle lettere e quindi parole di senso compiuto. Lo riaprì deluso, dopo aver scorso una serie di segni privi di significato.
– E va bene.
Con gli occhiali poggiati sulla punta del naso pronunciato, partì dall’ultima nota e sotto ognuna scrisse la lettera corrispondente secondo la notazione tedesca tanto cara a Maurice, proseguendo per sette pagine.
– Lorraine, sono tutte consonanti, non hanno… o forse aggiungendo…
La mente affamata di Anton si gettò sulla sequenza di lettere che si era formata davanti ai suoi occhi. 

mi hai cercato amico mio e dove se non nel linguaggio segreto e senza tempo della musica che insieme abbiamo mandato al mondo dove se non dietro il sipario rosso del teatro in cui la donna che non hai mai amato ha partorito mio figlio tuo per sempre dove se non per le strade che ne hanno visto la morte precoce e inesorabile in questo giorno di trentuno anni fa
lontano dal tuo sguardo ottuso e noncurante

dove se non addosso a te appiccicato al tuo successo immeritato come un’ombra fetida e pesante
dove se non indemoniato intento a darti materia per brillare nella menzogna che osi chiamare vita
nella luce che ti inonda non c’è niente di reale

solo uno sciocco sogno ad occhi aperti
e se mi cerchi amico mio mi trovi
sono tra le cosce morbide di tua moglie
sono il crepitio dell’applauso che scoppietta
sono quel dubbio che ti assale di non valere niente 
e da trentuno anni sono
sono abbracciato al mio bambino
sul fondo melmoso della loira

Lesse d’un fiato e rimase immobile, mentre un’onda di distruzione attraversava tutto ciò che credeva essere stata la sua esistenza. Il sangue pulsava ripetitivo alle tempie, con colpi potenti di grancassa. L’aria sparì dal corpo di Anton, uscì tutta insieme come in un potente acuto di sax ed egli cadde dallo sgabello del pianoforte, smarrito. Lorraine gli si avvicinò spaventata, chiamandolo senza sosta, sussurrandolo, gridandolo. Lo sguardo appannato di Anton era rivolto al soffitto, dove alla sua vista si proiettavano le ombre confuse di un’orchestra. Con una fitta di dolore al braccio e al petto, sentiva distintamente nelle orecchie il quinto movimento della Fantastica di Berlioz. Quando le campane da chiesa riecheggiarono nella sua mente svuotata di ogni senso, una morsa si strinse attorno al suo cuore. Il corpo si contrasse in uno spasmo leggero, appena percettibile e in un istante, con le mani chiuse a pugno e gli occhi spalancati, Anton si voltò in direzione della morte. 


Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera.