Il gelato della Signora Taketomi

Una goccia di gelato color latte si staccò dalla coppetta di cartoncino e le scivolò sul pollice. La signora Taketomi tentò di intercettarla col cucchiaino ma inutilmente, finendo per doverla leccare via guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno la vedesse in quel momento indecoroso. Per sua fortuna, era sola alla fermata dell’autobus. 

Ripulitasi per bene, si concentrò di nuovo sulla coppetta nelle sue mani. Affondò il cucchiaino nella pasta di fagioli rossi e poi ancora più in fondo nel compatto gelato al tè verde. Portatoselo alla bocca, chiuse gli occhi istintivamente e fece scivolare indietro la testa; ricordando a sé stessa di non emettere il gemito teatrale che era solita fare quando gustava dolci. Riaperti gli occhi, la vista del bus quasi davanti alla fermata la fece sobbalzare. Doveva aver girato l’angolo proprio mentre aveva gli occhi chiusi. La signora Taketomi si vergognò un po’ di quanto si lasciasse andare alla gola, quando aveva davanti un buon dolce. In fin dei conti, però, non era del tutto colpevole di essersi abbandonata al senso del gusto tanto da non sentire arrivare un autobus in corsa; quest’ultimo era, infatti, molto diverso dalle rumorose ferraglie delle tratte cittadine che era abituata a prendere da tutta la vita. Elettrico, a basso consumo e guidato da un’intelligenza artificiale, questa vettura era l’avanguardia del trasporto pubblico di Kyoto e metteva in contatto la metropoli con la periferia e poi ancora con le campagne al di fuori della città per chilometri. A dirla tutta, avrebbe preferito ci fosse un autista vero. 

La signora Taketomi infilò il cucchiaino di plastica iridescente nel gelato perché rimanesse fermo, si lisciò le pieghe del tailleur primaverile a fiori e si alzò in piedi pronta a salire, nella mano sinistra la coppetta e nella destra, legate al braccio, la borsa da passeggio e un sacchetto con dei dolci confezionati. La porta centrale si spalancò rapida, ma in modo controllato. Salì e sentì il beep del pagamento automatico del biglietto, dall’abbonamento elettronico nella borsa. Non fece in tempo, però, a muovere un passo che un energumeno in giacca e cravatta, con tanto di occhiali da sole, e alto almeno cinquanta centimetri più di lei, le si posizionò davanti.
– Alzi le mani!
Ordinò perentorio.
– Cielo!
Esclamò lei eseguendo l’ordine dell’uomo, che tirò fuori un lungo attrezzo di metallo dalla giacca e procedette a passarglielo di fronte agli occhi e poi lungo il vestito.
-E’ per ragioni di sicurezza.
Spiegò l’uomo, facendo segno con la testa verso la parte anteriore del bus. Seduto in un’isola di quattro sedili rivolti uno verso l’altro, un uomo distinto, in completo, parlava ad alta voce con persone che gli puntavano grossi microfoni davanti al viso e prendevano appunti.

La signora Taketomi riportò la sua attenzione all’uomo che ora stava passando il metal detector sulle borse che teneva legate al braccio. Il suo braccio sinistro, sempre alzato, reggeva in bilico la coppetta che iniziava a gocciolare pericolosamente lungo i bordi. Si chiese se fosse legale essere perquisiti all’ingresso di un autobus da qualcuno che non sembrava decisamente appartenere alle forze dell’ordine. Tenette per sé le rimostranze e concedette all’energumeno una semplice occhiata torva quando, finalmente, si spostò per lasciarla passare.
Si sedette velocemente nel sedile doppio appena alla destra dell’ingresso. Ancora un po’ scossa e con le braccia leggermente indolenzite, posizionò le borse sul posto di fianco e asciugò con un fazzoletto il gelato colato dalla coppetta. Il bus intanto era ripartito e lei si poté finalmente rilassare; fuori dal finestrino gli edifici della città scorrevano veloci e il panorama cambiò velocemente, da un calmo scorcio residenziale alla zona industriale. Il cucchiaino si muoveva veloce dalla coppetta alla bocca della signora Taketomi e la sua mente oscillava spensierata tra il sapore del gelato (aveva finito il tè verde ed era arrivata ora al fresco gusto agrumato dello Yuzu), il lento cullare dell’autobus e il pensiero della campagna dove era diretta.
Resasi conto di essersi incantata a guardare il finestrino, scosse la testa e spostò lo sguardo all’interno del bus. I passeggeri erano diminuiti sostanzialmente, man mano che si allontanavano dal centro della città verso i sobborghi. Fu attratta dalla vivace conversazione che l’uomo distinto stava avendo con quella che capì essere una reporter.
– Signor Kobayashi, quali sono le prospettive future della Kobayashi Transports?
Il tale signor Kobayashi tirò fuori un sorriso che mostrava tutti i denti che fosse possibile mostrare e ringraziò la reporter, una tale Mariko, per la domanda.
– Abbiamo intenzione di portare a termine questa tratta entro il mese, e subito dopo metterci all’opera per far entrare in servizio una seconda tratta entro quest’anno.
– Si direbbe molto occupato. Il lavoro può influire sulla sua candidatura a sindaco?
– Al contrario, il successo di questo progetto sarà il mio biglietto da visita alle elezioni.
La signora Taketomi roteò gli occhi. Neanche dentro un bus si riusciva a scappare dalla propaganda politica sparsa in tutta la città sotto forma di cartelloni, poster e banchetti raccogli-adesioni. Aveva finito il gelato. Nella coppetta rimaneva solo una piccola sfera metallica. Ci giocò con il cucchiaino facendola dondolare da un lato all’altro. Guardò l’orologio da polso “Ancora un’ora e mezza.” Pensò, e si voltò di nuovo verso il finestrino determinata a schiacciare un pisolino. Fu interrotta bruscamente da qualcuno che si era avvicinato al suo sedile lungo il corridoio e si chinava verso di lei. L’occhiata indisposta che gli lanciò lo fece indietreggiare leggermente, ma egli non desistette comunque dal disturbarla. Era un reporter, giovane e impacciato, che iniziò a farle domande maldestre e balbettate, ma altresì innocue.
– No, non è la prima volta che prendo questo bus. Sì, è molto bello e comodo. No, preferirei ci fosse un autista vero. Indifferente. Non saprei dirle, non mi interesso molto di politica. Preferisco il bus al treno. Vado a trovare mia sorella che abita in campagna.
Dopo averla ringraziata e averle chiesto il permesso di usare le risposte nel suo articolo, il reporter tornò a sedere sul retro del bus. La signora Taketomi iniziava a sentirsi gonfia per via del gelato, avendo trattenuto la pancia durante tutta l’intervista. Era sollevata di poter finalmente respirare e riempire il vestito senza preoccupazioni.
La fermata successiva prendeva il nome da alcune terme famose nei dintorni. La signora Taketomi osservò gli ultimi passeggeri scendere con sottobraccio le borse per la Spa. Anche i due reporter si congedarono dal signor Kobayashi con numerosi inchini e scesero di corsa, avanzando rapidamente, con tutta la loro attrezzatura, verso un camioncino televisivo fermo ad aspettarli. Una volta ripartiti, la signora Taketomi si guardò intorno, spiazzata dall’improvviso silenzio. Erano rimasti in tre. Il signor Kobayashi guardava fuori dal finestrino con il mento nel palmo di una mano. Stando a quanto detto alla reporter, lo attendeva un’altra lunga intervista ad una fermata ancora in costruzione. La prospettiva pareva non andargli a genio. La sua guardia del corpo, seduta pochi posti dietro la signora, sembrava addormentata sotto gli spessi occhiali neri.
La sua fermata si avvicinava. Aveva ancora in mano la coppetta ormai molle e accartocciata; la agitò con una mano e sentì il peso della pallina di metallo che vi rotolava dentro. La appoggiò sul sedile e si lisciò ancora una volta la gonna, notando con disappunto una piccola macchia di gelato proprio sopra le cosce. Tentò inutilmente di pulirla con un po’ di saliva, ma rinunciò dopo poco con uno schiocco della lingua. Prese le sue borse e si alzò, attirando l’attenzione del signor Kobayashi, che fino ad allora non si era neanche accorto che lei fosse ancora sull’autobus. La signora Taketomi accennò un sorriso gentile, socchiudendo gli occhi in una infinità di piccole grinze, fece un piccolo inchino dettato dalla cordialità che fu contraccambiato dall’uomo e si avviò all’uscita, lanciando un’occhiata alla coppetta abbandonata sul sedile.
L’aria fuori dal bus era fresca e quasi pungente. In campagna l’inverno tirava ancora per il braccio la primavera. Il sole le faceva male alle palpebre mentre si incamminava sul piccolo sentiero di asfalto trasandato verso il villaggio. Guardò l’orologio,“Dieci secondi”. Il tempismo era impeccabile. Infilò la mano nella borsa e ne tirò fuori due tappi per le orecchie che indossò svelta e si girò a guardare l’autobus, ormai lontano uno o due chilometri. L’esplosione fu più devastante di quanto si fosse aspettata. Una palla di fuoco sembrò implodere su sé stessa ripetutamente, divorando la vettura e sputando fuori lamiere disossate nell’arco di pochi secondi. Il suono le fece rimbombare i timpani nonostante i tappi. Si meravigliò di come una pallina di metallo di quelle minuscole dimensioni potesse causare tanto trambusto.
Tutto il paese era uscito in strada a vedere cosa fosse successo. L’unica persona a non accorrere fuori dal villaggio per assistere al disastro era sua sorella, che la aspettava sull’uscio di casa con le mani sui fianchi e un’espressione di rimprovero sul viso, che la signora Taketomi conosceva fin troppo bene, tradita però dal sorriso accogliente. Sapeva già come sarebbe andata la conversazione; ogni volta le prometteva che quello sarebbe stato l’ultimo contratto che accettava. 

Ma la verità, anche se faticava ad ammetterla, era che di andare in pensione non ne aveva proprio voglia.


Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera