Il manichino

La preghiera funzionò e, d’un tratto, la stanza illuminata ad intermittenza divenne l’altare di un silenzio mortale. Regi guardò le pupille liquide in quel corpo di stoffa e plastica, poi abbassò lo sguardo sulle proprie mani: il sangue era seccato in un’unica crosta che si incrinava ad ogni battito del cuore. Cosa sarebbe successo ora? L’uomo uscì dal cerchio di gesso e la sagoma aprì la bocca. Benny raccolse da terra la pietra a forma di piuma d’oca e fece il verso a Gianlu che aveva lo sguardo perso a pochi metri da loro, sulla casa popolare color salmone. Benny si sedette sul muretto. Indicò all’altro l’oggetto, lo alzò e avvicinò la lingua. Mugugnò ed infine si arrese.
– Gianlu devi andare a pisciare?
La brezza invernale graffiò Gianlu dietro all’orecchio destro e da lì partì una scarica di adrenalina e terrore giù fino alle parti basse. Aprì la mano sulla parte posteriore della nuca, cogliendo il brivido e convincendosi che avrebbe resistito ancora un po’ senza giacca, vedendosi parte integrante del murales con le palme sul portone di uno dei garage a schiera. Si girò verso gli occhi bassi dell’amico con un’espressione dubbia. Poi sorrise. Benny lanciò la pietra oltre il muretto e si rivolse all’orizzonte: lugubri composizioni di legno aprivano verso il cielo come meduse, limitando alla vista una massicciata e le griglie arancio-rosse del tramonto.
– Vuoi andare a casa, Gianlu?
– No, ho un’idea migliore.
Gianlu estrasse dalla tasca un paio di lenti a specchio, le indossò e disse:
– E’ un lavoro per Horatio Caine!
– Ma è tardi, andiamo a giocare alla Play?
– Come vuoi, niente Horatio, ma voglio fare una cosa. E tu devi venire con me.
Ed iniziò a camminare a passo svelto verso i caseggiati.
Una signora sulla sessantina serrò il cancelletto e svoltò l’angolo diretta ai garage. I due presero ad avanzare lentamente. La donna uscì con una piccola scala di metallo, chiuse il garage e si incamminò verso la palazzina.
Fu in quel momento che i ragazzi, prima Gianlu e poi Benny, iniziarono a correre poggiando i piedi come sagome di gommapiuma per non fare rumore. Gianlu si appiattì contro il portone di un posto auto e, quando la donna lasciò andare il cancelletto, il ragazzino corse per aggrapparsi ad uno spigolo ed il segmento di recinzione restò immobile. Infine, la donna attraversò il selciato e sparì dentro la palazzina. Lo stesso fecero i due amici, facendo attenzione a non lasciare che nessuna porta si chiudesse sbattendo.
Quando furono all’inizio dei gradini in marmo, Gianlu strinse i denti e drizzò un dito di fronte alle labbra. Benny annuì.
– Che cazzo vuoi fare? – Sussurrò.
Una porta si chiuse a diversi metri da loro e il corrimano vacillò.
– Voglio vedere come se la passa Reginaldo, lo spostato dell’ultimo piano.
Benny aprì la bocca e rimase silente. Le pupille ampie come lenzuola stese. Gianlu aveva colpito nel segno.
– E’, E’ l’idea più grandiosa di sempre! – Mostrò un sorriso color fieno.
– Va bene, calma.
Gianlu fece segno all’amico di attendere. Trangugiò e si tolse gli occhiali. Uno sguardo che bramava attenzione in un’espressione di sfida.
– Ora ascoltami: dopo pranzo mia madre l’ha visto salire con un manichino! Chissà cosa ci combina!
– E dove cazzo è andato a prendere un manichino?
Disse l’amico stordito. I due sorrisero in simultanea.
– L’ avrà preso in discarica!
Gianlu aggrottò la fronte in un’espressione granitica.
– Pronto?
– Sì, sì, sì! Muoviamoci prima che finisca! Ti ricordi l’altra volta? Ha tolto il DVD poco dopo che siamo arrivati!
Gianlu sorrise e capì che un minuto di troppo al piano terra e l’amico sarebbe entrato in casa di quel tizio sfondando i mattoni. Fece di nuovo segno di fare silenzio e salì i primi gradini. Benny lo seguì.
Arrivarono al terzo piano e l’aria si fece spessa. Probabilmente i Compostejos stavano cucinando messicano, o brasiliano, o qualunque diavoleria cucinassero quei tipi dalla pelle bruna. Il padre di Gianlu lo aveva avvertito di non accettare mai nulla da loro, nemmeno un sacchetto di patatine sigillato. Gli aveva altresì detto che in quella palazzina abitava uno svitato uscito di galera, con uno strano interesse per i ragazzini come lui. Se Gianlu ci fosse capitato vicino e suo padre lo avesse scoperto, sarebbero stati guai seri per lui e per tutti gli amici che si era portato dietro. Gianlu e Benny avevano dodici anni e le cose proibite erano frutti bellissimi e zuccherosi, tesori avvolti da drappi di mistero e frange di paura. Se fossero arrivati in tempo, di Reginaldo avrebbero visto azioni ed evoluzioni di cui avevano sentito raccontare solo dai grandi, in discorsi lunghi e fumosi, comprensibili solo a pochi eletti come tavole per ciechi.

Gianlu varcò la soglia del quinto piano. Si schermò gli occhi con la mano destra, ma il tramonto non c’era più ed i vetri senape creavano la penombra malinconica di un pomeriggio in una scuola abbandonata. Crebbe in lui la tensione, ma mai quanto in quel randagio alla vista di un pezzo di carne che aveva a fianco. Benny scansò Gianlu e guardò fuori dalla finestrella del lato opposto rispetto all’ultimo gradino. Oltre al suo viso, il cortile interno. Fece una pausa, guardò di nuovo e si rivolse all’amico:
– Siamo ancora in tempo!
Gianlu sorrise e afferrò la maniglia della porta sul lato destro. Spinse l’acciaio lentamente, appoggiò la spalla al legno ed entrò nell’appartamento sfitto: era un monolocale speculare a quello di Reginaldo e le piastrelle ed i piani erano ricoperti di polvere. Le uniche impronte erano le loro, risalenti a qualche mese prima. Benny si morse la lingua tanto non stava nella pelle. Gianlu avvertì l’amico chiudere la porta dietro di sé e fu sul punto di fargli i complimenti per la discrezione, ma era tardi e, attendendo in silenzio, rantoli oscuri e proibiti oltrepassavano le mura spoglie. Se li era immaginati? Poco importava perché il tesoro li attendeva.
Il soggiorno era senza librerie né divano e Gianlu corse alla portafinestra, stringendo i denti sulla lingua in caso di qualche scricchiolio di troppo. Si compiacque di essere la copia sputata di Daffy Duck che scassina una cassaforte in un corto animato nei suoi ricordi. Entrambi sul balcone assistettero chiaramente all’ombra intermittente sulla parete di legno divisoria.
– Ho visto bene, Gianlu! Chissà che sta facendo! Se arrivavamo qua per niente, ti buttavo di sotto.
Benny afferrò la ringhiera. Oltre il parapetto, gli alberi di ossa annerite all’orizzonte nascondevano non più il sole morente, bensì i vagoni di un treno, guidati da una luce spettrale nelle tenebre. Il ragazzo si voltò oltre il divisore e la sua espressione cambiò.
Gianlu emise un suono di soddisfazione e si fece spazio tra il fianco dell’amico e la parete di legno. Appoggiò il braccio sinistro sulla sbarra laterale inferiore della ringhiera e la mano destra sui coppi. Sporse più che poté il capo e, finalmente, ebbe la visuale libera sulla portafinestra dell’appartamento accanto. Nei pochi istanti in cui la luce era presente, nulla, in quella stanza, era riconoscibile. La televisione era spenta e la figura massiccia dell’uomo non era presente. Fu così che i due amici scavalcarono la ringhiera verso il balcone di Reginaldo. I cuori in alto sino alle stelle alla vista di quella donna senza capelli, senza arti e senza pube che aveva loro sorriso e, con un cenno del viso, li aveva invitati ad entrare. E così fecero, scansando con forza l’anta scorrevole.
Segni bruni sulle pareti. Un cerchio bianco, odore di rancido.
Luce. Buio. Luce. Buio. La donna aprì la bocca: una cavità senza colori, un freddo pungente.
Risa, occhi come puntine da disegno. Un urlo.

 


Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera