Il Ponte

John accese per l’ennesima volta la radiolina. Niente, le pile erano scariche da giorni. Con rabbia sputò dal carrarmato su un cumulo di macerie, poi disse qualche parola, probabilmente nel suo dialetto del Wyoming, che io non capii. Fino a un mese prima non sapevo nemmeno dove fosse il Wyoming. Io e John non ci eravamo detti una parola da almeno ventiquattr’ore. Ci eravamo scambiati solo una dozzina di sigarette, alcune Gauloises senza filtro delle mie in cambio di Lucky Strike. Tra una sigaretta e l’altra, spari e urla in lontananza. Noi nascosti in un bosco, più o meno al sicuro, sul carrarmato. Poi un rombo assordante, molto di più degli altri. Alle prime luci dell’alba eravamo entrati. La città era in fumo. Polvere nera ovunque. Avevamo  aspettato l’alba ed eravamo entrati, obbedendo agli ordini. Non avevamo più opinioni in proposito, le avevamo perse da un po’. Quando ci eravamo arruolati, qualche mese prima, credevamo di portare la pace.  
Il carrarmato avanzava lentamente tra le macerie e la città si presentava in un agghiacciante ritratto, non perfettamente intonato col sereno di un terso cielo invernale. Passavamo con una lentezza esasperante su strade quasi deserte. Gli scheletri di qualche palazzo  rimasto miracolosamente in piedi erano spettrali e sembrava di entrare nel romanzo Il ponte sul fiume Kwai, che avevo divorato l’estate prima. Come mi sembrava lontana ora quell’estate in Bretagna, come se il tempo avesse deciso di trascorrere adesso più veloce. Per anni giornate lunghissime, immobili e poi, per dispetto, improvvisamente il tempo si era messo a correre. 
Un bambino e una gallina ci si pararono davanti, in mezzo alla strada. Lui era a piedi nudi e teneva in mano un orsetto di pezza, o qualcosa del genere. La gallina razzolava senza senso, sola, intorno al ragazzino. Lui iniziò a piangere forte, come se avesse terrore di ciò che potevamo fargli. John diede un colpo secco, con la mano, sul fianco del carrarmato, per farlo scappare temendo di travolgerlo ed io non riuscii a far altro che urlargli -Échappe, petit!- Il bambino corse via, strillando ancora più forte. Poi arrivammo nei pressi del ponte. Non c’era più, si era spezzato. Esattamente a metà.
Avevo passeggiato su quel ponte qualche anno prima. Quanto poteva essere? Quattro, forse cinque anni prima. Non avevo neppure vent’anni. Lei mi camminava accanto, alta, composta, sorridente. E avevamo mangiato un gelato. E io le aveva guardato le belle ciglia lunghe tutto il pomeriggio. E i polsi sottili. E avevamo parlato in un inglese arrangiato e pittoresco. Ma ci eravamo capiti lo stesso, tra gesti e risate, poi avevamo fatto una lunga passeggiata e quella sera avevamo fatto l’amore. Ora il ponte si era sgretolato in centinaia di pezzi di legno, misti a detriti, che scorrevano alla rinfusa nel fiume. Avevo pensato a lei anche dopo averla salutata con un bacio e mai più rivista. -What’s your name?- Gliel’avevo chiesto più volte. Ma lei aveva riso e non me lo aveva detto come si chiamava. 
-I’m famous! – mi aveva risposto. E così avevo fantasticato per mesi su  una ragazza alta, con le lentiggini, tanto carina e senza un nome. Una ragazza famosa, talmente famosa da  non concedermi il suo nome.
Dovevamo raggiungere l’area ‘Peacekeeping’ con scatole di  cibo, medicine e altri beni. Ma non era ben chiaro dove fosse. Gli ultimi ordini del generale risalivano a due giorni prima, quando le radio ancora funzionavano. Dovevamo consegnare tutto a qualche altro soldato impaurito come noi, con una gran voglia di tornare a casa. Il viale era largo; qualche uomo curvo, una donna che sembrava pregare con un fazzoletto nero in testa ci guardava con occhi sospettosi , non sapendo se poteva fidarsi di noi. 
Troppo famosa per dirmi il suo nome, ma no, era sicuramente una scusa. Sì, una scusa per liberarsi di un ragazzetto più piccolo con cui si era divertita e di cui non voleva saperne più nulla. Ma negli anni mi era capitato di svegliarmi sudato e ansimante, sentendo ancora il profumo dei suoi capelli rossi. L’avevo cercata: giornali, enciclopedie, ma non ero riuscito a saperne nulla. E più il tempo passava e più mi sforzavo di non perdere, nel ricordo, la sensazione della sua pelle a contatto con le mie mani. Chiudevo gli occhi sentendo il ritmo della sua risata un po’ sfrontata: “I cannot, I’m famous…”  

Nelle ultime tre notti eravamo stati svegli bevendo le ultime cassette di birra e il sonno cominciava a farsi sentire. John, anestetizzato dall’alcool, mi aveva raccontato della sua famiglia, dei suoi cinque fratelli, del padre zoppo, della vita in Wyoming. Ora non aveva più voglia di parlare, si era chiuso in un mutismo cupo, carico di rancore. Da lontano vedemmo qualcosa brillare: il sole controluce illuminava, forse, dei grossi cartelloni pubblicitari. Il segno di  recenti mitragliate aveva riempito di buchi ordinati alcuni panni stesi ad una finestra, mossi delicatamente dal vento. I buchi marchiavano mura, finestre, indumenti. Poi la strada improvvisamente finì nel nulla. Ci trovammo di fronte l’enorme cartellone che sembrava l’unico testimone di vita in un posto ormai completante distrutto. 

Un cappello di paglia turchese lasciava intravedere dei riccioli rossi e un sorriso senza tempo. Una ragazza teneva in mano una scatola con qualcosa, forse pesche sciroppate, ma non riuscivo a distinguere bene la scritta. Dissi a John che dovevo pisciare. Col respiro corto mi avvicinai al cartellone. Il suo bel viso sfigurato dalle mitragliate mostrava buchi sugli zigomi e lungo il collo. Non riuscivo più a respirare. “Ti ho trovata.” Mi ripetevo, frenando le lacrime. Mi avvicinai ancora. Guardai meglio. Una calligrafia in corsivo, in basso, sul cartellone, siglava la pubblicità, come un consiglio. Ed era sigillata da una firma. Ma solo la lettera iniziale del nome, la lettera ‘M’ si rivelava. Il resto del suo nome rimaneva illeggibile, per sempre, cancellato dalla guerra.


Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera