Uno splendente rossetto nero era perennemente dipinto sulle sue labbra, tanto che qualcuno poteva pensare che se lo fosse addirittura tatuato. Mentre percorreva la stretta e sconnessa stradina dedicata a Luigi Pirandello, Alma pensò che sarebbe stato più dignitoso ripararla, dato il nome che le avevano donato. Invece, da molti anni oramai, non era nient’altro che una distesa di asfalto pieno di grosse cicatrici. Il suo sguardo, caratterizzato da occhi trasparenti come il ghiaccio, era intento a scansionare ogni centimetro della strada e le faceva a tenere il viso rivolto verso il basso, mentre i suoi lunghi capelli, gialli come il sole di quell’agosto rovente, ondulavano al ritmo scoordinato e fuori tempo dei passi tra le fenditure del catrame.
Un pensiero le ronzava in mente: andar via al più presto da paesino in cui era nata, quel luogo soffocante ed opprimente che non faceva altro che additarla come “ammaliatrice di uomini”. Le donne del paese la incolpavano a causa della sua bellezza normanna:
“Vichinga!”, la schernivano con astio. Questa parola l’aveva accompagnata per gran parte della sua vita ferendola sin dentro l’anima, per una colpa che sentiva di non avere: la sua diversità, rappresentata dalla condanna dell’essere incantevole, l’aveva sempre fatta sentire sola e incompresa. Lei non era quell’ aggraziato contenitore angelico che tutti si permettevano di giudicare; lei era semplicemente una persona umana e sensibile.
“Boys don’t cry…” canticchiava in preda al turbinio di questi pensieri che le rimbalzavano dentro la testa come palle impazzite. Questo ritornello lo intonava spesso, soprattutto quando era triste, e lo utilizzava come scacciapensieri. “Booys don’t…”, “Puff!”. Un tonfo sordo di una mano callosa e pesante come una sacca di cemento le si catapultò secca sulla spalla, bloccandola per un secondo e lasciandola congelata dalla paura, in quel meriggio incandescente.
-Ciao, Vichinga – sussurrò come vento gelido una voce nera e profonda alle sue spalle.
– Facciamo due passi, seguimi.
Alma, ancora frastornata dal contatto con quella mano, rimase impietrita e, con fatica, riuscì a delineare i contorni, scuri e liquefatti dai raggi solari, delle spalle dell’omone che le si piazzò di fianco. Era Salvo, conosciuto come il “monaco zen”, quello schivo pastore di cui il paese parlava malvolentieri. Si vociferava fosse stato un sicario a servizio della mafia, entrato ed uscito dal carcere per tutta la vita, e che avesse ucciso molte persone. Ad un certo punto si ritirò dalla scena criminale, appartandosi nel suo casale alle pendici del monte Mufara, tagliando i ponti con tutto e, più di ogni altra cosa, con il passato.
– Le donne si sono riunite segretamente la scorsa notte, hanno racimolato una bella somma; mi hanno pagato profumatamente! – ghignò, mostrando i suoi denti d’oro al sole.
La ragazza non capiva e si muoveva a scatti alterni come una bambola con le batterie quasi scariche. Trascinata sottobraccio dal vigoroso Salvo non riuscì ad opporre resistenza; camminava come sospesa nel vuoto, madida di sudore e con la spalla incollata al poderoso braccio dell’ uomo. -Di cosa sta parlando? Cosa vuole lei da me, cosa volete tutti da me? Mi lasci, per favore… – I passi si fecero sempre più frettolosi e traballanti lungo la sgangherata lingua di catrame, quando d’ improvviso Salvo si bloccò ed avvicinò il faccione da bestia all’esile volto della ragazza. Gli occhi dell’uomo, scurissimi ed inespressivi, si trovavano a pochi centimetri da quelli di Alma, chiari e traboccanti di lacrime e di terrore.
– Per questo mi hanno pagato, vedi, ragazzina?
La lama tiepida del suo grosso coltello da caccia accarezzava delicatamente la pelle chiara dello stomaco scoperto di lei, circoscrivendo il suo ombelico per poi fermarsi. Con leggera pressione fece uscire un’unica goccia di sangue che serpeggiando verso il basso si nascose timidamente dentro le sue mutandine nere.
– Ma tu vesti sempre e solo così, Vichinga? Metti quasi paura anche a me, con questo tuo modo di vestire monocromatico e scuro come l’abisso! Ah!Ah!Ah!- ghignò nuovamente.
L’uno di fronte all’altra, stretti come due innamorati, con le unghie di lei avvinghiate nelle carni degli avambracci di lui. Si scrutarono attendendo reazioni che non arrivavano. Rimasero immobili per un tempo indefinito, con gli occhi che si compenetravano silenziosamente.
D’un tratto, l’imponente corpo di Salvo cominciò a tremare. Scorse qualcosa nella glacialità degli occhi di Alma, qualcosa che aveva seppellito tempo fa; come le sue vittime sotto i rigogliosi faggi delle Madonie. Non si accorse delle lacrime che correvano copiose lungo il suo viso e che si smorzarono contro la barba sottostante ove, a fatica, tra la folta e dura peluria, si fecero spazio per cadere pigramente a terra. Una cornacchia svolazzò sopra le loro teste ridestando Salvo che, come uno zombie tremolante e sconvolto, procedette a ritroso sino al grosso sasso bianco posto dietro di lui, sul finire della viuzza. Il corpulento uomo vi si sedette sopra, con lo sguardo perso nella deserta vallata di terra dorata. Portò le mani al viso e le sfregò forte come a voler grattar via la pelle, ma sapendo che quello che voleva cancellare era solo l’ombra delle sue lacrime.
Alma, distesa a terra, fissava un sole oramai sbiadito, sopra cui la cornacchia gracchiante roteava come fosse un’aquila. L’ombra delle ali dell’uccello giocava sul suo viso, apparendo e scomparendo. Chiuse un momento gli occhi per poi riaprirli poco dopo. Girò la testa alla sua sinistra, verso il grande sasso, ma Salvo era scomparso e al posto suo, sulla sommità della pietra, scorse un’ottocentesca bambola di ceramica elegantemente vestita, che la fissava con occhi vitrei. Una ventata fece volare via il piccolo cappello verso la valle. Lei si alzò come se fosse stata posseduta e, calamitata da quello sguardo immobile, iniziò ad avvicinarsi titubante. La bambola le assomigliava ed era identica a quella che suo padre le aveva regalato all’ età di otto anni, l’ultima volta che lo aveva visto. Un ghigno si stampò sulla sua faccia quando le sue mani tastarono il rigonfiamento spigoloso dello stomaco morbido del pupazzo. Lentamente iniziò a svestirlo per vedere cosa ci fosse dentro. Banconote, molte banconote, accompagnate da un biglietto logoro di terra e fradicio, forse di lacrime e sangue.
– Vichinga – recitava il cartoncino stropicciato tra le sue dita tremolanti – questa somma spetta a te, non a me. Parti oggi stesso, lontano. Spiega le ali e non tornare mai più.
La cornacchia era rimasta poco lontano da lei ad osservarla; “Cra, cra!” sortì, mentre la scrutava con i suoi occhi neri. Alma trasalì, e con la bambola penzolante tra le mani percorse in senso inverso via Pirandello, senza far più caso alle grosse fenditure dell’ asfalto, che al calar del sole scomparvero.
Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera.