Lo so, mi stai dando del bastardo. Del vigliacco. O forse mi stai chiamando eroe. Magari ti stai chiedendo perché la polizia mi abbia arrestato invece di ammazzarmi sul posto e mi stai augurando le più atroci sofferenze. Tranquillo: mi impiccheranno tra poche ore. Di certo ti starai chiedendo perché ho fatto saltare in aria tutta quella gente senza ragione. Ma il motivo c’è. Eccome se c’è! Come dici? Qualsiasi esso sia non giustifica il gesto? Parli proprio bene, lo sai? Dovresti scrivere un libro! Uno tutto fratellanza tra popoli, uguaglianza sociale e giustizia in tribunale. Quelle cazzate da occidentale insomma. La verità è che se nasci in certe parti del Medioriente la violenza è l’unica cosa che conosci bene. L’unica compagna di vita. L’unica moneta di scambio. L’unica risposta a domande che magari nemmeno avevi fatto. L’unica risposta insieme alla fede nell’unico vero Dio, ovviamente. È questo l’unico motivo valido.
Eppure non sono stato sempre così. Prima di finire in carcere e di conoscere il Maestro ero ateo. Avevo studiato, io! Avevo fatto l’università, io! Mica potevo permettermi di credere in certe cose, io! Ora so quanto mi sbagliavo. Ora me ne rendo conto. Non credevo in Dio perché non potevo permettermi di avere fede in qualcuno che non fossi io. Dovevo cavarmela da solo. Ho sempre dovuto cavarmela da solo.
Mi restava solo mia sorella. I nostri genitori erano morti da tempo. Non avevo un soldo. C’erano giorni in cui non riuscivo nemmeno a comprare da mangiare. Giravo il Paese per cercare fortuna, ma non riuscivo a tenermi un lavoro. “Sveglio sì, ma svogliato”, dicevano. “Troppo sfrontato”, dicevano. Mi davano del fallito e ridevano di me. Ora guardali: piangono a causa mia!
La mia vita cambiò la prima volta che presi l’aereo. Lo confesso: avevo paura di volare, paura di morire, ma mia sorella stava male e dovetti tornare nella città in cui ero nato. Volevo bene a mia sorella.
Avevo paura di volare, dicevo. Quando si accesero i motori e l’aereo iniziò a vibrare andai nel panico: iniziai a tremare e a sudare freddo. Ero agitato e si vedeva. Una hostess mi lanciò uno sguardo e fece un sorriso ironico: l’ennesima umiliazione. Volevo scendere da lì, ma rimasi al mio posto. Feci alcuni respiri profondi e mi calmai. Il volo andò bene finché non attraversammo un temporale. L’aereo iniziò a oscillare per il vento e iniziai ad agitarmi. La voce del comandante che ci ordinava di allacciare la cintura di sicurezza non mi aiutò a calmarmi.
Ero terrorizzato: avevo il volto contratto, gli occhi sbarrati, le braccia tese, le mani che stringevano i braccioli, la schiena e il collo rigidi, la camicia sudata, il respiro affannoso. Ero in cielo e pregavo un dio a cui nemmeno credevo di non farmi morire in quel modo.
Quando un fulmine colpì la carlinga la paura prese il sopravvento sul resto: dovevo scendere. Lo so, detta così sembra una scena comica, ma ti giuro che ero nel panico: non ragionavo più! Slacciai la cintura e corsi verso il portellone. Cercai di aprirlo quando un paio di mani mi presero da sotto le braccia, mi sollevarono e mi scaraventarono sul pavimento. Mi ritrovai steso sulla moquette, intontito, con gli occhi semichiusi, le braccia stese bloccate da due tizi, mentre un terzo premeva un ginocchio sulla colonna vertebrale e un altro mi prendeva a calci tra le costole facendomi mancare il fiato ad ogni colpo. Un attimo dopo le mie mani vennero bloccate dietro la schiena con delle fascette di plastica. Scoprii in seguito che, dopo l’11 settembre, su tutti i voli c’erano degli agenti in borghese.
Mi tirarono su. Tentai di spiegare che si trattava di un equivoco, ma appena provai ad aprire bocca venni raggiunto da un calcio nelle palle che mi fece cadere sulle ginocchia e mi tolse di nuovo il fiato. Credo di essere rimasto in quella posizione per almeno un minuto. Cercai con lo sguardo quello che mi sembrava il capo dei quattro. Mi rialzai prima su un ginocchio, poi mi rimisi in piedi barcollando. Tentai di nuovo di chiarire l’accaduto, ma fui zittito da uno schiaffo in pieno volto. Sputai un dente misto a sangue. Mi ordinarono di spogliarmi e mi perquisirono ovunque. Letteralmente. Gli agenti non dissero una parola. Non mi fecero nessuna domanda. Quando scesi dall’aereo avevo in bocca il sapore dolciastro del sangue e quello amaro della vergogna. Almeno cinquanta passeggeri avevano assistito alla mia umiliazione.
Venni condotto in carcere in attesa del processo. Le guardie mi fecero spogliare e mi perquisirono di nuovo. Mi spruzzarono dell’acqua ghiacciata con un idrante per lavarmi. Fui trascinato in una sala poco illuminata che puzzava di piscio e sudore. Mi legarono i polsi ad una catena appesa ad un gancio sul soffitto, mi sollevarono e iniziarono a picchiarmi con dei manganelli. Mi liberarono solo per gettarmi in una cella di isolamento illuminata a giorno. Tra il dolore, l’adrenalina e la luce non dormii molto. Nessuno mi aveva ancora chiesto nulla. Fui svegliato in piena notte, o forse era già il mattino dopo, e portato in una stanza con una vasca colma d’acqua. Gli agenti mi gettarono lì dentro: era gelida. Una guardia mi spinse la testa sott’acqua, poi mi tirò su per i capelli permettendomi di respirare. Spalancai la bocca per catturare quanta più aria possibile. Solo allora mi fu chiesto di confessare il mio crimine. Spiegai cos’era accaduto. Risero tutti i presenti. La guardia che aveva parlato ordinò alle altre di riprendere la tortura finché non avessi ammesso la mia colpa. Mi ritrovai di nuovo con la testa sottacqua. Le guardie presero sul serio il loro compito: alternarono l’annegamento con le bastonate. Andarono avanti così per giorni, o forse settimane: ormai avevo perso la cognizione del tempo. Alla fine cedetti e dissi loro quello che volevano sentirsi dire. Era vero: avevo cercato di far cadere l’aereo e di ammazzare tutti. Mi condannarono a 15 anni di carcere dopo un processo farsa. Anche questa volta ero da solo: l’avvocato che avrebbe dovuto difendermi mi consigliò di confermare la confessione per evitare altre torture. Che tu ci creda o meno, quella condanna è stata la cosa migliore che mi sia mai capitata.
Mi riportarono nella cella di isolamento. Mi davano il cibo una volta al giorno. Mi lasciavano lavare una volta al mese. Non avevo abiti o biancheria pulita. Avevo solo una coperta sporca in cui avvolgermi dopo essermi steso sul materasso pieno di cimici.
Dopo due anni di isolamento venni spostato in una cella con altri detenuti. Ero scheletrico, sporco, con le unghie, la barba e i capelli lunghi. Entrai nella cella terrorizzato, in punta di piedi, cercando di fare poco rumore e attirando il meno possibile l’attenzione. Non funzionò. Appena entrai si voltarono tutti e dieci gli occupanti. Uno di loro vide la coperta e me la rubò: perfino quello era un lusso lì dentro. Tra i presenti c’era il Maestro. Nessuno lo chiamava mai col suo vero nome. Sì, era proprio lui: il leader della Setta. Sì, la chiamo Setta proprio come fa il Regime per screditarci. La chiamo Setta così che tu possa capire di cosa sto parlando. Il Maestro era un nemico del Regime e l’unico motivo per cui all’epoca era ancora vivo era il seguito che aveva fuori dal carcere. Perfino il vecchio leader del Regime aveva paura di quello che avrebbe potuto scatenare il suo assassinio.
Il Maestro ordinò all’uomo di ridarmi la coperta: nonostante l’aspetto dimesso, mi aveva riconosciuto. Aveva sentito parlare di me, ma volle conoscere la mia storia. Non il motivo per cui ero dentro, quello già lo sapeva. No, gli interessava sapere chi ero fuori dal carcere. Chi ero prima del carcere e chi sarei diventato una volta fuori: era la prima volta che qualcuno si interessava a me.
Gli raccontai degli stenti e della povertà, gli parlai delle umiliazioni, ma non seppi dirgli chi sarei diventato. Da allora iniziammo a parlare tutti i giorni. Per lo più discutevamo di politica, filosofia e religione. Cioè, lui parlava e io ascoltavo. Era un leader nato, con una grande fede in Dio. I momenti di sconforto, diceva, servono a mettere alla prova la nostra fede. Era solo attraverso essa che riusciva a sopportare il carcere. Dio, mi diceva, compie miracoli tutti i giorni: se avessi avuto fede in Lui, mi avrebbe aiutato a sopportare la prigione e a trovare la mia strada dopo il carcere. Il Maestro mi parlava del futuro e nessuno si era mai interessato al mio futuro.
Divenni un membro della Setta. Ammetto che in un primo momento entrai solo per avere protezione dagli altri detenuti e cibo da parte di qualche guardia corrotta. Lentamente, però, iniziai a credere veramente in ciò che predicava il Maestro. Dio, mi diceva, mi aveva messo su quell’aereo. Dio mi aveva portato in quel carcere. Dio mi aveva fatto rinchiudere proprio nella cella insieme a lui. Tutto quello che mi era successo era un segno divino e io non potevo deludere Dio. Impiegò un anno a convincermi che se mi trovavo in carcere non era stata colpa mia. Che c’era un motivo. Che dovevo diffondere la fede nell’unico vero dio. Che dovevo vivere e se necessario morire per Lui. Passai i dodici anni di carcere che dovevo ancora scontare a studiare i testi sacri.
Il Maestro venne ucciso pochi giorni dopo l’arrivo al potere del nuovo leader del Regime. Tutti noi membri della Setta venimmo portati nel cortile della prigione per l’ora d’aria. Avevamo tutti le catene ai polsi e alle caviglie ed eravamo addossati al muro. Era la prima volta che ci riunivano tutti insieme: credevo che saremmo stati tutti fucilati. Due guardie presero il Maestro, lo portarono al centro del cortile e lo massacrarono di botte mentre era ancora in catene. Lo uccisero torcendogli il collo come si fa con gli animali. Ci costrinsero a guardare. Chi chiudeva gli occhi o si voltava veniva bastonato. Guardai tutta la scena. Ricordo che serrai i pugni e strinsi i denti. Mi costrinsi a non piangere. In quel momento decisi che gli infedeli dovevano morire per questo. Dovevano morire tutti. Mancavano due mesi alla mia scarcerazione.
Uscito dal carcere ero un’altra persona. Ero un uomo con una missione. Ottenni da alcuni membri della Setta le armi per l’attentato. Era chiaro che sarei morto, ma non mi importava. Non avevo più paura di morire: sarei finito in Paradiso per questo. Avrei rivisto il Maestro in Paradiso. Dio mi avrebbe accolto. Dio mi avrebbe accettato.
Il resto della storia lo conosci. Un po’ di tritolo, un radiocomando, una macchina piena di benzina parcheggiata vicino al tempio degli infedeli, una grande esplosione e decine di morti per terra. Poi l’arresto, le botte, di nuovo, e un processo durato appena il tempo per pronunciare la condanna a morte.
Come ultimo desiderio ho chiesto di parlare con un sacerdote della Setta. Non mi aspettavo che mi avrebbero accontentato, ma l’hanno fatto. Perdonami, ora dovresti uscire dalla cella: non puoi sentire quello che ho da dirgli.
Per fortuna mi hanno lasciato le mani libere per fare il segno della croce.
Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera.