A noi quel ritmico ticchettio sui vetri era sempre piaciuto, nonostante a volte, portasse con se un’umida malinconia. In quel momento, però, sentivo appiccicata addosso una sensazione cupa di angoscia e inquietudine indefinita o meglio: perfettamente percepita dai sensi, ma non del tutto dalla parte razionale.
Forse perché stava facendo buio, forse perché quello stesso ticchettio aveva aumentato il suo ritmo. O forse perché, dopo settimane di caotico andirivieni di volti noti e meno noti per il conforto di rito, quella sera ero sola in casa, con il cuore masticato dai ricordi e da quello che era accaduto.
“…Ci dispiace…ma di Lui è rimasto solo un dito…” Mi avevano detto, quasi sentendosi in colpa loro per essere ancora tutti interi, in quella notte di pioggia senza tregua, quando la Sua macchina uscì di strada, precipitando nel dirupo.
Da svariati minuti continuavo a leggere e rileggere le ultime due righe del capitolo, dando le spalle alla porta a vetri del soggiorno. Il persistente disagio mi costrinse ad alzare la testa. Fu allora che lo vidi nello specchio di fronte, riflesso alle mie spalle oltre la vetrata, nell’ultimo filo di luce di quel sole indomito che, nonostante la fitta coltre plumbea, avrebbe continuato impassibile la sua discesa.
Mi girai e lo vidi nel vialetto, accosciato sulle zampe posteriori, a fissare un punto in alto alla sua sinistra, come se la pioggia non fosse una questione urgente da sbrigare quanto prima.
Entrambi adoravamo i gatti e ognuno di noi due ci aveva condiviso pezzi della propria vita. E sebbene credessi nel detto che i cani insegnano ad amare, mentre i gatti insegnano a vivere, non avevo mai afferrato la loro essenza fino in fondo, conscia che alcuni misteri tali debbano rimanere. Armatami di ombrello, uscii e dopo un breve attimo di esitazione, mi accovacciai d’istinto a un metro di distanza, aspettando una sua mossa. Mi guardò per un attimo, poi s’accese di un suono roco e iniziò a strusciarsi contro le mie ginocchia avanti e indietro, in una danza sinuosa di affetto felino. Gli appoggiai la mano libera sul dorso, quasi a tranquillizzare me stessa attraverso la sua fisicità.
Quella sensazione, però, era sempre lì.
Mi rialzai umida e intorpidita, era tempo di rientrare. Tornando sui miei passi, provai a sedurlo con lo schioccare tipico della lingua sui denti, con cui noi umani chiamiamo spesso i nostri animali, consapevole della verità Kiplinghiana che “…Lui è il gatto che va in giro da solo, e per lui tutti i luoghi sono uguali”. Con somma sorpresa mi seguì. Entrata per prima e rigirandomi verso di lui nell’attesa che mi raggiungesse, vidi però qualcosa di incomprensibile e inaccettabile al tempo stesso.
Rimasi come sospesa per un tempo indefinito, a dubitare di me stessa e dei miei occhi, nonostante l’animale fosse ormai al riparo nella luce piena della veranda. Il rituale riprese nuovamente. Vidi le sue palpebre socchiudersi, la testa scendere e risalire nel suo tipico modo flessuoso, come a voler indossare una collana. E il pelo, scompigliato, man mano lisciarsi, come se un’onda gli stesse percorrendo il dorso. Come se una mano lo stesse nuovamente accarezzando. Poi tutto cessò e la bestia riprese a guardare in alto alla sua sinistra: appena sopra la sommità della mia testa, il vetro si appannò più e più volte, a rinfrescare l’impronta di una mano senza un dito, che appena un attimo dopo l’ultimo soffio, sparì definitivamente, lasciando che un brivido mi colasse dietro la schiena come liquido gelato.
Non so cosa accadde esattamente quella sera. Come non sono certa, ad oggi, che gli inquilini di questa casa siano solo due, il gatto e io. So con certezza però, che nelle sere di pioggia, il gatto guarda spesso un punto in alto alla sua sinistra e il pelo si abbassa sotto il peso di una mano: non ho ancora capito se Lui venga per darmi conforto. O a reclamare il suo dito.
Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera.