Radici

Se anche il cellulare avesse funzionato, chiamare un’ambulanza non sarebbe certo stata l’idea migliore – a patto che esistessero idee valide, quando ti stavi trasformando in un albero. Fare esperimenti sulla fotosintesi in una baracca di lamiera fatiscente sperduta in mezzo ad un bosco gli garantiva un’ottima privacy, ma aveva diversi inconvenienti. Ad esempio, colava più acqua di uno scolapasta, probabile motivo per cui aveva preso quella dannata scossa elettrica, e c’era anche il problema della ricezione: lì in mezzo, il cellulare non prendeva niente. 
E gli sarebbe servito come l’ossigeno, perché sotto le ginocchia i jeans erano stati sbucciati come banane, e rivelavano due grossi tronchi proprio lì dove c’erano stati i suoi polpacci, le sue caviglie ed i suoi piedi. La pelle ruvida sopra le rotule sfumava in un verde pallido che quasi istantaneamente si tuffava nel marrone della corteccia profondamente scanalata. Le radici dei due ceppi penetravano voracemente nel pavimento sterrato come grossi lombrichi affamati di fango.
Deglutì un grumo di saliva denso come un sasso. 
«Okay,» disse ad alta voce, «Niente panico.»
Ma non fu affatto semplice. Si asciugò la fronte, sulla quale i riccioli si erano appiccicati in grosse serpi grigie. Era così zuppo di pioggia e di sudore che parte dell’acqua che gli impregnava la camicia a quadri era colata a terra, disegnando una zampa di gallina con lunghi rigagnoli. Seguì uno di quei fiumiciattoli con lo sguardo: terminava, ad estuario, nell’unica soluzione possibile.
Impugnò l’ascia. Sulla lingua percepì stranamente il sapore del ferro, come se avesse assaggiato la testa dell’ascia. In verità, sentiva il gusto del sangue colante dal labbro che continuava nervosamente a sgranocchiare. Riusciva solo ad immaginare lo stesso sangue che schizzava fuori dalle sue gambe, e l’immensa scarica di dolore che ne conseguiva. 
Ma ormai le sue gambe non c’erano più. Anche tamburellando su quelli che un tempo erano stati i suoi polpacci, non sentiva niente. Era totalmente insensibile, come anestetizzato. E poi, quale sangue sarebbe uscito da due tronchi?
Inspirò profondamente, e sollevò l’ascia oltre la sua testa. 
Si svuotò dei pensieri, e calò il colpo a metà polpaccio.
Le sue previsioni si rivelarono corrette: nei tronchi non scorreva più sangue. Ma quanto al dolore, si sbagliava di brutto. Non arrivò subito, ma fu piuttosto come vedere uno tsunami in lontananza, e saper di non poter più sfuggire alla sua furia assassina. Il dolore iniziò lieve, e poi crebbe, crebbe e crebbe. Doveva sbrigarsi, e terminare prima che il dolore diventasse insopportabile.

Alzò l’ascia, la calò, e la gamba sinistra si staccò definitivamente dal ceppo. Alzò l’ascia, la calò, e la lama aguzza penetrò nella destra con estrema facilità. Alzò l’ascia, la calò… Si sentiva come uno di quegli orologi a cucù, dove le statuine dei taglialegna muovevano macchinalmente le braccia su e giù, in uno schema ineluttabile.
Alzò l’ascia, e… lo tsunami si abbatté. Il dolore gli attraversò ogni singolo capillare come il veleno di un serpente, facendogli divaricare le dita. Il manico scivolò dalle sue mani, e l’ascia rimbalzò di un metro più in là. 
Si lasciò cadere di schiena, gridando a squarciagola. Ogni centimetro del suo corpo vibrava di un’esplosione nucleare. I muscoli del volto erano tesi come la pelle dei tamburi, e quasi non riusciva ad aprire gli occhi. Ma doveva aprirli. Doveva riprendere l’ascia e tagliare anche l’ultimo lembo di legno rimasto. Avrebbe sofferto comunque, forse ancora di più, ma almeno sarebbe stato libero di strisciare fuori dalla baracca e chiedere aiuto. 
Allungò il braccio, ma le dita non arrivavano al manico. Non riusciva a stirarsi di più: nell’incidere il ceppo, l’ascia non era arrivata a nemmeno metà del diametro. Anzi, nemmeno a metà del raggio… ma non era andato più a fondo? Osservò meglio, e allora al dolore si sostituì un terrore gelido. Il taglio sul ceppo si stava rimarginando a vista d’occhio, e prima che potesse rendersene conto, anche il moncone dell’altra gamba aveva riemesso radici e si era già saldamente ancorato al terreno di nuovo. Frattanto, la corteccia aveva masticato l’intero ginocchio e cominciava a risalire la coscia.
«No,» farfugliò, le labbra tese e vibranti come corde di chitarra. Iniziò a dimenarsi come un ratto schiacciato tra i denti di una trappola, e proprio durante uno di quegli spasmi percepì un cilindretto duro tra la tasca dei jeans e il terreno.
Lo estrasse. In breve tempo, la sua mente elaborò tutti i possibili scenari connessi all’utilizzo del suo accendino. Uno sguardo al bancone dove effettuava i suoi sperimenti: fortunatamente, era molto vicino a lui.
Quasi istantaneamente, seppe che cosa doveva fare.
Fece forza sulle ginocchia, che si erano indurite, ma non ancora irrigidite totalmente, e si sollevò in piedi. Afferrò una boccetta di vetro trasparente da sopra il bancone che recava, sull’etichetta bianca, la scritta Metanolo. Nel togliere il tappo di plastica nera, un fiotto invisibile di vapore ruvido gli incartapecorì le narici. Inspirò a fondo, come per percepire al meglio quello che, con molte probabilità, avrebbe potuto essere l’ultimo odore che avrebbe mai sentito. Poi, senza pensarci ulteriormente, si cosparse le gambe legnose del contenuto della boccetta.
Con uno schiocco deciso, evocò la fiamma dell’accendino. La osservò ballonzolare nell’aria, titubante. Avvicinò alacremente la fiamma alla corteccia fradicia di metanolo, ed istantaneamente il solvente divampò in una lingua di fuoco bluastra. 
Lo tsunami, questa volta, si infranse su di lui immediatamente. Le fiamme, ormai stabilmente ancorate al legno, risalivano e leccavano anche le cosce carnose di Marco. Un odore terrificante, di peli e di carne bruciata, sostituì quello del metanolo. Un denso fumo grigio gli tamponava la saliva come del cotone, asciugandogli completamente la bocca.
Marco gridò. Non credeva potesse esistere un dolore peggiore di quello esploso mentre si tranciava le gambe con l’ascia, eppure adesso lo stava vivendo. Al peggio non c’è mai fine, pensò distrattamente e subito, come in un sadico racconto dell’orrore, le sue parole divennero profezia. Il legno, come se avesse capito di essere in pericolo, iniziò a risalire le gambe molto più velocemente. In pochi secondi, tutte le cosce si erano indurite e si segnavano di smagliature verdastre, che quasi istantaneamente crescevano e divenivano corteccia. Dal canto loro, le fiamme continuavano imperterrite a divorare il legno e a bruciargli i peli del corpo, e ora avevano attecchito anche sulla camicia e sui jeans. 
D’un tratto, una delle due gambe, completamente carbonizzata, cedette e gli fece perdere l’equilibrio. Marco franò di faccia sul pavimento sterrato della baracca. Nel cadere, anche l’altra gamba ormai deteriorata di spezzò, liberando una manciata di tizzoni ardenti, che baluginavano di un rosso cupo, ravvivandosi ad ogni suo respiro.
Furono l’ultima cosa che vide. L’ossigeno iniziò a mancare dentro la baracca e dentro i suoi polmoni. L’insopportabile calore delle fiamme si convertì in una piacevole frescura, mentre la vista si univa ai ghiribizzi del fumo nell’aria, lasciandosi trasportare in alto, dove tutto era più limpido e più bianco. Poi il bianco divenne grigio come la cenere in cui si stava decomponendo il suo corpo; infine fu nero. Ma il nero attese primavera per schiarirsi, e quando Marco si risvegliò, c’era qualcosa di strano in lui… ed era forse che stava così bene, al sole, in quella sua nuova forma: una splendida pianticella dalle foglie rosso scarlatto, dentro cui non scorreva linfa, ma denso sangue umano.


Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera