Se la sfiga avesse un nome, avrebbe il mio.
Felicia è infatti quello che scelse mia madre, mentre a me farebbe felice soltanto poter raggiungere un bagno al più presto. Ma dove penso di trovarlo, considerando che sono le dieci e mezza di sera di giovedì e che l’unico bar ancora aperto l’ho scovato io, appena prima di abbassare la saracinesca del locale, per bermi uno schifosissimo caffè? Avrei dovuto capirlo che quell’odore di acquitrino, quel retrogusto amarognolo, reso ancor peggiore dai minuscoli granelli di arabica che galleggiavano al suo interno, non mi avrebbe portato niente di buono.
Ed infatti sono qui, che cerco di raggiungere la mia macchina in preda alle convulsioni intestinali, talmente forti, che mi sembra che il colon abbia assunto vita propria e si stia annodando al mio interno. Per evitare di perdere la dignità ed anche qualche altra cosa, cammino ingobbita, mettendo un piede davanti all’altro, le braccia conserte strette attorno alla pancia, nel tentativo di placare le convulsioni con il calore. Ho dovuto parcheggiare pure distante, perché vicino a quel maledettissimo bar non c’era neanche un posto libero.
Mi avvicino all’auto, sentendo salirmi l’emozione al pensiero che presto potrò essere a casa, ma appena arrivo allo sportello del guidatore, mi accorgo che c’è qualcosa che non va. Sul lato opposto, fuori dalle strisce blu e nel bel mezzo di un passaggio pedonale, è infatti parcheggiato un suv di quelli talmente grandi, da far sembrare il mio pandino il mezzo di locomozione di Pollicino. Ciò che è peggio è che mi si è appiccicato addosso, in un punto in cui l’illuminazione è scarsa. Sul retro c’è inoltre lo spazio a malapena sufficiente per fare manovra, se non si vuole correre il rischio di spiaccicare il portabagagli contro i tronchi bitorzoluti dei pini.
Inizio a sudare freddo; un brivido mi percorre la schiena, dalla testa ai piedi. Smetto di respirare e, per qualche istante, il battito del mio cuore diventa aritmico. Come diavolo esco da qui?
Mi sporgo e noto che nel suv, dal lato del passeggero, c’è la sagoma di un tizio che sta parlando concitato al telefono. Tiro un sospiro di sollievo e mi metto al volante, certa che, appena accenderò l’auto e i fari, l’uomo si metterà al posto del conducente e mi agevolerà la manovra.
Invece, dopo aver fatto rombare il motore un paio di volte, il tizio non fa una piega. Continua a urlare al telefono, guardando dalla parte opposta alla mia. Indispettita e con i crampi che tornano con prepotenza a scuotermi, scendo dall’auto e constato se proprio non abbia possibilità di manovra. Ci saranno circa cinque centimetri fra me e il transatlantico, pure bianco, per altro, e io ho tutto tranne che la concentrazione necessaria per mettermi a divertirmi con le manovre. Ma all’ennesimo dolore intestinale, salgo in auto, sbattendo lo sportello, e ingrano la retromarcia. Provo a muovermi, ma mi sembra di avvicinarmi alla portiera dell’altra auto. Allora metto la prima e torno avanti, tentando di raddrizzarmi o di avvicinarmi al muro dall’altro lato. Niente: le mani sul volante tremano, il cuore batte all’impazzata e mi scivola pure una goccia di sudore dalla tempia, mentre il buontempone nell’altra auto continua ad ignorarmi.
Mi strappo la cintura di sicurezza di dosso e scendo dalla macchina, diretta verso il cafone, e gli batto più volte sul vetro. Lui spalanca la bocca, sbatte le palpebre, neanche avesse davanti un miraggio, e infine si decide ad aprire.
– Che voi? – biascica in dialetto romano, masticando un chewing gum.
– Chiedo scusa, ma non è che sposterebbe la macchina? Sa, non riesco ad uscire con la mia.
Gli indico il pandino.
Lui scuote la testa confuso e allunga poi il collo verso la mia auto
– Guarda che ce passi – mi dice, sempre con il cellulare incollato all’orecchio e la voce impastata dalla gomma.
– Ho già provato varie volte e, mi creda, non posso uscire senza prenderle la fiancata – insisto, sperando che il suo unico neurone finalmente si attivi.
– Aò, se te dico che ce passi, ce passi, no? – non mi prende sul serio e poi torna al cellullare – Non sto a parlà con te , c’ho ‘n andicappata che nun sa uscì da ‘n parcheggio.
Si lascia andare ad una mezza risata.
Ci vedo rosso. Le unghie delle dita mi si conficcano nei palmi delle mani strette a pugno, mentre digrigno i denti tanto da farli scricchiolare.
– Io so guidare benissimo!
Sbotto con voce malferma.
– Oltretutto ho pagato un regolare biglietto per potermi mettere qui. Non vede le strisce blu? Lei invece dov’è?- – Fori. Risponde insolente il cafone, sporgendosi dal finestrino.
– Appunto, è nel torto!
– Ah bella, stamme a sentì: se tu sei poco furba e voi spende li sordi nel parcheggio, non è colpa mia. La prossima volta, fai come me, e sta più tranquilla.
Preme il bottone del finestrino automatico e si richiude in auto, senza più degnarmi di uno sguardo.
A me sembra invece di aver raggiunto la temperatura di fusione del ferro. Neanche sento più i dolori di pancia, da tanto è l’istinto omicida che mi assale. Torno verso la mia macchina, sbattendo i piedi a terra come un cavallo imbizzarrito, e inizio a fare manovra. Tento di tenere una respirazione regolare e di uscire dritta. Più volte rischio di sbattere contro l’altra auto, poi contro i pini, ma alla fine, dopo altre cinque manovre per girare l’auto e riportarla sulla stradina, ce la faccio.
Sgommo fuori dal parcheggio, maledicendo il cafone, tutta la categoria dei guidatori di suv, dei romani, uomini e masticatori di gomma, stringendo il volante come a volerlo disintegrare. Se non avessi un’urgenza, allora sì che gliela farei vedere io l’America! E, proprio mentre mi immetto sulla via principale, ho una visione: un market, all’angolo; uno di quelli degli indiani, ancora aperto, a quest’ora. Inchiodo d’istinto con una strana sensazione viscerale. Market vuol dire bagno. Bagno vuol dire fine dei dolori. Fine dei dolori significa tempo per una vendetta. Accosto decisa e corro verso il negozietto, dove un signore assonnato mi indica la toilette.
Tornata come nuova, inizio allora a girovagare per gli scaffali pieni di cianfrusaglie, con l’aria intrisa di spezie che mi fa formicolare il naso, mentre nelle orecchie risuona il motivetto di Cher “Strong Enough”. Sono eccome forte abbastanza: sono un chimico, io! Arraffo dunque del fertilizzante, uno spago, un mazzo di fiorellini, dei cerini, un po’ d’alcool e una confezione di sacchi di plastica.
Torno quindi in macchina e mi dirigo di nuovo verso il parcheggio. Il suv è ancora lì e il buontempone di prima è addirittura sceso e si sta fumando una sigaretta. Passeggia sotto un pino, spostando ciottoli con la scarpa e dandomi le spalle. Allora mi metto poco distante a fari spenti, infilo il fertilizzante nel sacchetto e lego il tutto con uno spago a mo’ di miccia. Scendo quatta quatta e, sfruttando l’ombra del parcheggio, mi avvicino ad una delle ruote del suv: adagio il sacchetto per terra, vi dispongo sopra i fiorellini, imbevo lo spago con l’alcool, lo distendo fino a porre una distanza fra me e l’ordigno di oltre un metro e, infine, gratto il cerino sul lato ruvido della confezione. La fiammella rossiccia si agita e contorce nella mia mano, il calore mi si avvicina alle dita. Accendo la miccia, calpestando poi il cerino, e scappo verso la mia auto. Metto in moto in fretta, non curandomi della cinta, e arrivata sulla strada principale, faccio in tempo a sentire il rimbombo di un’esplosione, gli allarmi delle auto che fischiano e un urlo disperato, prima di svoltare sulla strada di casa, con un bagliore rossiccio nello specchietto retrovisore.
Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera.