– Luca?
– Dimmi.
Antonia socchiuse le palpebre orlate da lunghe ciglia dorate. Il cielo era di un azzurro acquoso e il calore del sole pomeridiano era smorzato da frequenti folate di vento. Le spighe fremevano e le pizzicavano le braccia.
– Tu che vuoi fare da grande, Luca?
Lo sentì ridere.
– Ma che razza di domanda è?- Disse il ragazzo e Antonia sbuffò, irritata.
– Rispondi e basta.
Lui scrollò le spalle.
– Bah, probabilmente manutentore della turbina e se mi va bene non farò niente.
Ecco. Sempre la stessa risposta.
– Non hai mai pensato di, che ne so, fare qualcosa di più? Qualcosa di diverso?
Luca scosse la testa. “Ci risiamo”.
Antonia strizzò gli occhi. Lei e Luca erano cresciuti insieme, in quel misero villaggio dove vivevano, sperduto nelle campagne. Eppure, nemmeno lui capiva. Nessuno la capiva mai. “Perché sforzarsi nella vita quando c’è la turbina?” dicevano tutti. Eh, certo. La turbina. Faceva tutto lei, lei e il suo dannato succo d’arancia.
– Antonia, noi barattiamo il succo con tutto! E’ così che abbiamo l’elettricità, il riscaldamento… tutto grazie alla turbina!- Recitò Luca come un libro stampato.
– L’unica cosa che potremmo fare è diventare…
– Manutentori. Lo so.
Luca la osservò mentre, mezza inghiottita dalle spighe, si stringeva nelle spalle.
– Anto, qui nessuno fa niente. Cosa vorresti chiedere di più, che vivere in pace nell’inattività più totale?
Antonia chiuse gli occhi. “E questa voi la chiamate vita?” pensò. C’era sempre stato un “Io” e un “Voi”. Non le bastava avere gli stessi tratti degli altri cittadini per sentirsi come loro. Non rispose. Tanto Luca non avrebbe capito. Persino a scuola tutto quello che imparavano era volto a prepararli alle riparazioni degli ingranaggi della turbina. La turbina c’era e ci sarebbe sempre stata. E lei, come tutti gli altri, non avrebbe fatto niente nella vita. Non avrebbe viaggiato, non avrebbe lavorato. Perché era questo che tutti facevano lì. Niente.
Passò una settimana. Una mattina il paese venne svegliato da un rumore metallico assordante che strideva asciutto contro il cemento. Tutti quanti erano accorsi, avvolti nelle loro vestaglie e con le ciabatte ai piedi, alla centralina di monitoraggio della turbina. Urla e pianti si levarono a riempire l’aria fredda del mattino: la turbina si era fermata. Antonia e Luca si guardarono di sottecchi mentre uno degli anziani del paese studiava il canale, completamente prosciugato.
– Qualcosa ha bloccato il flusso – dichiarò.
Le persone si guardarono, spaesate, terrorizzate. Il paese sarebbe rimasto al buio, non avrebbero più potuto comprare niente, il succo era finito! Un fitto mormorio si levò dalla folla. Persino Luca, accanto a lei, parve essere scosso da un leggero tremito. L’anziano alzò la voce contro il brusio.
– Qualcuno dovrà andare a ripulire il canale!- Esclamò.
Nessuno fiatò. I minuti passavano. Una mano candida e solitaria si levò come quella di un naufrago in quel mare di persone.
– Vado io! – Urlò Antonia.
L’anziano serrò le labbra, -Non è un lavoro per ragazzine.- Sussurrò.
Lei aggrottò le sopracciglia, afferrò il braccio di Luca ed esclamò: -E allora lui viene con me!-
Il ragazzo trasalì.
– Ma che fai?!
Antonia gli rivolse uno sguardo di fuoco “La rivuoi la tua dannata aranciata o no?!” Luca deglutì. Partirono a mezzogiorno del giorno stesso. Nessun altro si era proposto, così rimasero loro due, sul lato del canale che si snodava per chilometri verso quell’ambito e temuto ‘chissà dove’. Si guardarono.
– Ti odio – sospirò Luca. Antonia sorrise.
– Mi ringrazierai.
E iniziarono a camminare.
Camminarono per settimane. Avevano entrambi perso il conto dei giorni dopo il settantaduesimo. Incontrarono spesso altre città. Magnifici edifici si protendevano verso le stelle, rilucenti di specchi. Persone di tutti i tipi invadevano le strade costellandole di stili, colori e parlantine mitologiche e assurde. Un mondo pazzesco. Non si fermarono mai per più di un giorno. Chiedevano indicazioni e ripartivano. Per Antonia era tutto fantastico, pieno di vita. Mentre Luca si era fatto sempre più cupo, man mano che i giorni passavano. Ormai le sue risate sincere erano diventate un avvenimento raro. Fu solo dopo molto tempo che raggiunsero la meta. Arrivarono in un immenso frutteto, senza sapere in che modo o quando ci fossero giunti. Gli alberi di arance arrivavano al cielo, mentre il canale si inabissava nel terreno. Che fare? Antonia individuò un uomo, appollaiato su di un ramo, intento nella raccolta dei frutti. Agitò le braccia e urlò -EHI!-
L’uomo proseguì imperterrito nel suo lavoro. Era anziano, rinsecchito, con la pelle bruciata dal sole.
– Salve! – esclamò anche Luca.
Nessuna risposta. Il ragazzo ritentò.
– Lei sa del succo d’arancia? Veniamo dal villaggio in fondo al canale…Lei sa perché il succo si è fermato?
Il vecchio ridacchiò, e finalmente li guardò.
– Certo! – Rispose con voce gioviale -Ho chiuso io il canale! Accidenti! Era da decenni che quella stupida diga era rotta!
Antonia strinse gli occhi contro la luce del sole.
– La riaprirebbe? – domandò ingenuamente.
L’uomo la fissò.
– Ragazzina… sei sicura di quello che mi stai chiedendo?
Gli rispose Luca: -Certo che ne è sicura!-
– Vi attendevo, sapete?
Rivolse lo sguardo verso la distesa infinita di alberi.
– Sapete per quanto si estende questo frutteto? Fino alla fine dei tempi – disse il vecchio – E’ il frutto di secoli di lavoro, ragazzi miei. Secoli di lavoro di una stirpe morta di cui sono l’ultimo membro.
– Questo che c’entra?- Ringhiò Luca.
L’anziano lo scrutò con astio silenzioso.
– Tu quanto hai lavorato, ragazzo, per ottenere quello che hai?- domandò.
Luca fece per rispondere ma non riuscì a replicare. L’uomo sorrise, colse un’arancia, estrasse dalla tasca un coltellino, la taglio a metà, la sbucciò e ne incise la polpa, come il gesto di un rituale sacro ormai dimenticato. Prese tra le dita un semino. Insignificante. Lo lanciò ad Antonia e lei lo prese al volo, osservandolo con attenzione.
Il vecchio le fece un cenno.
– Andate a casa, ragazzi. Piantate il seme, curatelo, faticate. E aspettatevi che un giorno vi si presentino dei forestieri, da ogni dove, a chiedere di far tornare a funzionare la loro turbina.
Antonia strinse il seme, gli occhi luminosi.
Luca non pareva così affascinato, anzi.
– Che cosa vuol dire?! – urlò inferocito – Che ce ne facciamo di questo stupido seme?!
Ma il vecchio aveva finito la sua lezione ed era tornato a lavorare.
– STO PARLANDO CON LEI! – sbottò il ragazzo.
Antonia lo prese per una spalla.
– Luca, che fai? Basta, andiamo via. Abbiamo…
– Abbiamo cosa?! Avevi detto che avremmo riportato il succo!
– Luca ora abbiamo il seme, con un po’ di lavoro potremo…
– Al diavolo il tuo ridicolo seme!- urlò e con una sberla le fece volare via dalle mani il loro tesoro.
– LUCA! – gridò lei, vedendolo allontanarsi. Stava tornando indietro.
– Meglio niente che quell’inutile condanna! – continuò a inveire – Ti credevo intelligente! E tu che fai?! Riponi la salvezza del nostro villaggio nel lavoro! Io me ne vado!
Antonia rimase in piedi al centro del sentiero. Le lacrime le rigavano le guance ma, nonostante ciò, si chinò, cercando di ritrovare il semino.
Accidenti! – sbottò furiosa. Una mano le si posò sulla spalla. Lei si voltò, incrociando lo sguardo intenerito del vecchio. Sospirò.
– Dopotutto forse non sono l’ultimo della mia stirpe – ridacchiò e Antonia si asciugò le lacrime. Stava piangendo succo d’arancia.
Il vecchio le mise tra le mani un frutto.
– Vai – le disse – so che saprai cosa farne.
Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera