La fortuna di Irene

Irene, che stai a fa’ qui? Manco me sembravi te; che succede, dimmelo nun stà zitta, ricconta.
Ti pare facile raccontare, ma credimi non lo è. Significa rivivere quello che, nel bene e nel male, ti ha segnato e se hai un buco nel cuore rischi di esserne risucchiata. Il silenzio fa bene, è terapeutico; però per te provo.
Che dirti?
Vivevo la mia vita, mi piaceva, anche se non era niente d’eccezionale: ero soddisfatta del lavoro, degli amici, finché tutto è cambiato. Era già capitato incontrando uno sguardo – il mondo è pieno di sguardi e quello non appariva diverso dagli altri. Invece ha diviso la mia vita in due parti: prima e dopo. Decisi di vivere quella storia pur sapendo che sarebbe finita e non me ne sono mai pentita. È stata una mia scelta.
Una mattina mi alzo, mi preparo, esco in fretta per andare al lavoro, con la borsa piena di pagine tradotte. Arrivo puntuale e qualcuno – solo con un filo d’imbarazzo – mi dice che è spiacente, ma la linea editoriale è cambiata e il mio contributo non serve più.

Nun me dì e ch’hai fatto?
Niente, che potevo dire o fare? Ero stata ingenua, mi ero buttata nel lavoro con lo stesso spirito di un navigatore solitario che affronta le onde senza sapere se e quando approderà. Ero caduta preda del demone dell’entusiasmo che sussurrava: fiducia, sogno, passione sono sufficienti per essere un traduttore editoriale, preparazione e competenza bastano e avanzano, non serve nessuna altra garanzia. E già, la passione si era trasformata in presunzione: inutile provare a ricordare le risposte evasive, le frasi ignorate perché non gradite, i silenzi eloquenti: accecata non avevo colto nessun segnale.
A cinquantasette anni tutto questo è più di una colpa e così come in un domino tutto è venuto giù: lavoro, amici, casa, libri, viaggi, tutto e ora mi ritrovo per strada. Non l’ho scelto, ma è così.

La strada è un ber posto, nun te pare, è un po’ casa de tutti!
Quando avevo dove tornare sì, era un’amica. Che gioia passeggiare col naso all’insù, guardare le facciate delle Chiese e dei Palazzi, leggere le antiche iscrizioni e tradurle per me o per altri. Essere nata a Roma, che fortuna! E il percorso dell’anima: la Rotonda…

‘A Ritonna…? e dimme er Panteon sennò nun te capisco…
Va bene, dicevo: il Pantheon e via della Rotonda (posso?), per arrivare a largo Argentina, entrare in libreria, a volte in attesa dello spettacolo a teatro.
E l’Area Sacra, più volte illustrata a turisti italiani e stranieri: “Idi di marzo 44 a.C. Giulio Cesare fu colpito a morte da Bruto…”.
Una volta Aedes Fortunae…rimase a metà perché un cretino del gruppo aveva attaccato una molletta sulla folta coda di un gatto rosso e se la rideva mentre il povero animale, lamentandosi, faceva frenetiche acrobazie per togliersi quello strano oggetto di dosso. Corsi ad aiutarlo, mi lasciò fare. Dopo averlo accarezzato ripresi contrariata …Huiusce Diei….
La fortuna di ogni giorno, così recita l’iscrizione sul tempio della Dea del Caso o del Destino, Plutarco dice della Fortuna…

è quella di essere vivi, in salute, accuditi e liberi.
Ma quale fortuna oggi? Nevica, fa freddo, sono tutta zuppa, il dormitorio è pieno e la strada è meno amica che mai. Cerco di convincermi che posso sopportare tutto; lo credo davvero e vorrei solo capire come faccio per poterlo insegnare a tutti quelli che soffrono più di me. Oggi so che la violenza non è solo nelle urla, nelle botte, nel sangue ma anche nell’indifferenza di chi passa e neanche ti vede oppure esclama, tirando un guinzaglio: “Vieni qui piccolino…, non ti sporcare…”.

Er fatto è che la sopportazione nun s’insegna Iré e quanno te dice male mozzicheno pure ‘e pecore, nun lo sai?
Sono tanto stanca e mi fermo qui. È come se la mia vita fosse stata concepita perché oggi tornassi in questo luogo. Vorrei alzarmi ed andarmene, ma è impossibile, anche solo con la testa. Eppure con la testa puoi andare molto lontano, dove vuoi, ma in questo caso niente da fare: non ho volontà e allora resto accucciata sulla soglia della libreria dalla grande F.
Si riflette sulla neve, sembra fuoco…

Irene, ‘a Iré piantala stai a sbarellà! Sei tutta rintorcinata. E guardeme, ritorna in te. Svejate datte na mossa!
Non ce la faccio, non insistere. E poi tu chi sei con quella pelliccia rossa e il cappello delle Giovani Marmotte? Oh, ma è una coda, sei un gatto… il Gatto! Niente è più come prima e noi ci ritroviamo, è davvero straordinario, una coincidenza che sfugge al calcolo delle probabilità. Sono così a mio agio qui con te…

A Iré nun ricomincià so stufo de gnaolà, arzete e vieni co me.
Che fatica, ma va bene, mi alzo e ti seguo fino alle antiche rovine dell’Area Sacra; eccoci sotto al tempio della Dea della Fortuna che protegge voi gatti romani, vi tiene al caldo, vi accudisce mantenendovi liberi.
“Aedes Fortunae Huiusce Diei”, oggi è anche la mia fortuna. Grazie.

Nun c’è de che Irene, grazie a te anche se in ritardo.


Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera.