Sete

– Siamo tutti dipendenti Marco, solo che tu lo sei un po’ di più.
Marco annuì.
– Capisci quello che ti sto dicendo?
– No.
– Ne sei sicuro?
Marco spalancò gli occhi e diresse le lacrime verso quella gola sabbiosa e graffiante: -Scusi Dottoressa, ho bisogno di bere ora. Sono assetato.
– Vedi Marco quanto è difficile per te stare con questa verità? Sei assetato sempre un po’ di più di quanto l’acqua riesca a dissetarti.
Aveva il potere di sconvolgerlo, di fargli sentire quel maremoto di liquido interiore infrangersi contro la carcassa. La pagava per quello dopo tutto: per guardare in faccia l’informe massa liquida di emotività che lo rendeva tanto instabile nella vita. Solo che la dottoressa non sapeva che per Marco quello non era un venerdì come gli altri, uno di quei venerdì in cui sarebbe tornato a casa per aprirsi una birra e guardare il muro, finché le ultime verità rivelate non si fossero adagiate su di lui liberandolo dal panico. No, quello era un venerdì grandioso. Di lì a poco sarebbe arrivata lei, la ragazza che gli aveva tenuto compagnia negli ultimi mesi.
Marco e Luana si erano conosciuti su una chat per “amanti della musica” o, più obiettivamente, per “amanti senza amore”. Avevano parlato in un primo momento delle loro opinioni sugli ultimi album in classifica, poi di se stessi, delle proprie passioni, del lavoro e in definitiva della loro solitudine. Qualche giorno prima avevano infine deciso di incontrarsi, di dare un volto a quelle parole, e avevano stabilito di farlo proprio quel venerdì a casa di Marco, a cena.
Marco aveva fatto del suo meglio. Indossava i jeans che tante volte l’avevano fatto sembrare un ragazzo quasi mondano, la sua camicia London Style che richiamava le band di cui avevano parlato tanto e una cinta dozzinale che rivelava la sua poca attenzione per l’esteriorità. Aveva cucinato un menù di pesce. Aveva addirittura rivoluzionato il salone: pulito la libreria bianca in modo tale che spiccasse sulle pareti azzurre, sistemato il tavolo giallo al centro della stanza, spinto il divano bianco di cotone sotto la finestra per tentare un approccio, con la scusa della luna in vista, e messo delle simpatiche tende a righe nel caso in cui ci fosse stata la sperata intimità.
Nonostante però tutto fosse stato messo in ordine, si percepiva una trepidazione che, partendo dai nervi tesi di Marco, si diffondeva in tutta la stanza e così l’orologio a parete sembrava far vibrare le lancette gialle smaniosamente, il divano non riusciva a star fermo e si sgualciva di continuo, le tende frusciavano di un vento che non c’era e il condizionatore sembrava essere stato preso dal panico, bloccato, non emetteva alcun respiro. Faceva caldo, molto caldo.
Luana arrivò, bella di una bellezza tutta sua. Occhi terreni, capelli tinti con un rosso decisamente demodé, magra fino all’osso ma con una pelle sana e lucente, le clavicole chiuse per la timidezza e le mani sudate per l’imbarazzo.
Tutta la stanza si placò. L’attesa era conclusa, ora tutto il mobilio doveva solo stare a guardare. Tutto, tranne il condizionatore che perseverava nel suo panico rendendo la stanza infuocata.
Marco e Luana cominciarono a mangiare, a descriversi e a raccontarsi. Era incredibile come nonostante fosse chiaro al divano, alle tende, al tavolo, all’orologio, e soprattutto al condizionatore, che i due fossero diversi come carattere, come trascorsi di vita e persino come desideri per il futuro, questi si atteggiassero come anime perfettamente coincidenti, unite da un’unica, stessa, grande, schiacciante aspettativa: l’amore.
Il tutto era reso evidente dalla fatica che gli stessi sopportavano per rivelarsi e presentarsi l’uno all’altra sempre più approfonditamente, tentando di trovare nelle ragioni profonde degli episodi della loro vita quella comunanza che doveva necessariamente esserci. La fatica li faceva sudare e li costringeva a togliersi prima la camicia con un:  -Scusa Luana, non ce la faccio, ho troppo caldo-, e poi la maglietta, -Scusa Marco prova a darmi un altro po’ d’acqua. Che imbarazzo proprio non resisto.
Così i due perseveravano nelle rivelazioni e si spogliavano di tutto quello che avevano indosso, colti da quel maremoto infuocato che quel dialogo comportava. Più si costringevano a rivelarsi, più era necessario mentire a se stessi, dare fuoco alle proprie verità e ai propri desideri, sull’altare delle anime gemelle.
Il condizionatore li guardava attonito, sapeva cosa stava accadendo, ma non li poteva e non li voleva aiutare. Dovevano cavarsela da soli.
Fu lì che Luana si spinse oltre.
– Marco, forse non dovrei dirtelo, ma è l’unico segreto che ormai c’è tra noi.
Nuda sulla sedia, sudava freddo, i capelli erano bagnati, non sentiva più le gambe e non vedeva lucidamente nemmeno Marco. Nudo anche lui, di fronte a lei, con lo sguardo spento, e la fronte corrugata dalle gocce di sudore che la solcavano aggressivamente. Resisteva, tentando di ascoltarla, pronto a cercare subito la soluzione in cui lei era la sua anima gemella.
– Marco io non ho una casa, ma non perché non posso permettermela. Non ce l’ho perché non so avere qualcosa che mi contenga, che sia mio, che mi ospiti e mi rispecchi. Vivo dove capita. Dagli uomini soprattutto. Marco, io una casa dove stare non l’avrò e non la vorrò mai, perché per me stare è impossibile.
Quella verità, quell’ultimo segreto, attizzò il rogo che scalpitava dentro Marco ancora di più. Lui amava la sua casa, lui voleva stare, “stare con” soprattutto, e per questo serviva un luogo, serviva voler restare. Ma i due venivano ormai pressati sul fondale da un torrente in piena: il bisogno d’amare e di essere amati. E più desideravano appagare questo desiderio, più l’amore si allontanava liquefacendo le loro personalità. Il bisogno inappagato oscurava ogni passione, sostituiva ogni azione vitale con un lento scorrere di angosce e paure, gli appiattiva gli occhi, deformava la bocca, otturava il naso, abbassava le spalle, rammolliva gli arti e scioglieva i ventri. Marco era lì, abbandonato su quel fondale melmoso, ad inghiottire tutta l’acqua bollente del suo torrente interiore. Doveva scegliere: dare fuoco anche a quest’ultimo desiderio, alla vita insieme in quella casa e trattenerla a sé, oppure lasciarla andare e riconquistarsi, a partire proprio da quel luogo. E lì, quel torrente emotivo che da sempre gli apparteneva divenne lava vorace e lo costrinse a dire con la voce profonda come i suoi abissi:
– Luana neanche io voglio una casa, neanche io voglio stare, mi basta avere te. Ho solo sete.
Luana lo guardò come il fiume guarda il mare prima di immettercisi, con rassegnazione, sapendo che ogni sforzo per allontanarsi sarebbe stato vano. Doveva annegare anche lei:
– Ho molta sete anch’io.
Fu in quel momento che successe una cosa inaudita. Il caldo concluse la sua missione: i due, ormai spogliati da ogni difesa e ogni individualità, cominciarono a sudare, burrascosamente, da ogni parte del corpo. Il fiume emotivo stava rompendo gli argini delle carcasse e fuoriusciva filtrando dalla pelle. Ma quel sudore non era innocuo, aveva tutta la violenza della sete che avevano avuto per anni e anni. E così ogni goccia di sudore, scivolando verso terra, corrodeva le membra, le ossa, i muscoli, la pelle, i sorrisi, gli sguardi, i respiri di quei due amanti senza amore, sciogliendone i corpi che divenivano sempre più monchi.
I primi a sparire furono i piedi, poi, fu la volta delle gambe, e a salire il pube, l’addome, il torace, il volto. Marco e Luana stavano perdendo la loro forma umana trasformandosi nell’acqua che li aveva sempre albergati. Bastarono pochi minuti di quello spettacolo infernale perché i corpi si liquefacessero completamente fondendosi in una pozza d’acqua sotto al tavolo. La loro sete era finalmente appagata. Marco e Luana non esistevano più.
Solo ore dopo tornò il coinquilino di Marco, raccolse tutta quell’acqua da terra, maledicendo il suo amico, e accese il condizionatore. Ora il marchingegno era tornato a funzionare.


Questo racconto è stato scritto dall’autore durante il corso di Scrittura Creativa de Il Melograno, condotto da Marco Caponera.