Il tram del primo del mese

Pioveva. E pareva che lo facesse da sempre, comunque da un tempo immemorabile. La pioggia cadeva fitta fitta, ma senza peso. Nonostante l’ora non fosse più presta, la coperta del cielo era così uniforme e grigia che la luce trapelava appena ed era ancora buio dappertutto. Le luci artificiali erano accese e si diffondevano dai muri degli edifici giù per le strade, argentando il manto d’acqua che ricopriva l’asfalto.
Il tram scivolava lento sui binari luccicanti che venavano il largo viale tra i palazzi d’epoca e raccoglieva, a ogni fermata, piccole greggi di donne e uomini rattrappiti dall’età, che s’accalcavano sotto le pensiline gocciolanti e poi aprivano gli ombrellini neri per guadagnare a fatica il predellino, prima, e l’entrata, poi: a chi si fosse affacciato alla finestra soprastante sarebbero apparsi come tanti bacarozzetti che s’affannassero a ficcarsi nei buchi delle carrozze.
Era il primo del mese e l’autista sapeva che avrebbe raccolto, lungo il suo percorso, i tanti disperati, ancora non disillusi dall’esistenza, pur tirata avanti oltre le soglie della vecchiaia, che quella mattina avrebbero sfidato qualsiasi intemperia pur di continuare a reclamare la loro pensione. Avrebbero raggiunto insieme la fermata terminale dell’ufficio postale e lì si sarebbero fatti forza per alzarsi e staccare il sedere dal laminato plastico dei sedili, che pure faceva male sotto le chiappucce tutte pelle e ossa: e ancora, ansimando, avrebbero arrancato verso l’uscita, incerti avrebbero affrontato ancora gli scalini del predellino e, una volta in strada, avrebbero diffuso le energie residue nei venti trenta passi necessari per entrare alla posta e conquistare così il biglietto per la fila.
La pioggia non accennava a scemare, anzi aveva irrobustito il suo scroscio e s’era mutata in un solido fiotto che risciacquava i vetri dei finestrini, annacquando la vista sull’esterno. Davanti, il parabrezza su cui si stagliava la sagoma stretta e dritta dell’autista, era battuto da getti corposi e schioccanti che i tergicristalli parevano contrastare come remi nell’acqua. Ormai erano solo due le fermate che ancora avrebbero interrotto la corsa del tram verso l’ufficio postale e il lungo viale aveva preso a curvare e a farsi leggera discesa. A bordo, c’era chi gli era caduta la testa, dietro, sopra le spalle, vinta la resistenza al sonno che anima l’arzillo barlume di vita che residua in un corpo stanco e malandato: e un ronzio rantolante sbucava fuori dalla bocca rimasta aperta, tra le labbra sottili e livide.
Ma c’era anche chi parlava: parlava, parlava, parlava da solo, in un brusio sconnesso che sembrava il farfuglio di una preghiera; o declamava ad alta voce, declinando in toni solenni il disappunto del momento: maledizione quella pioggia interminabile! maledizione i cambiamenti climatici! maledizione il traffico! maledizione il governo! maledizione i reumatismi! 

In prossimità della penultima fermata, il tram iniziò a rallentare ma l’acqua aveva allagato la strada in quel tratto in cui le ruote si bloccarono e l’attrito con le rotaie venne meno. Così il tram scivolò via, uscì dai binari e si ritrovò a percorrere la via poggiando direttamente sull’asfalto. Zigzagando, con l’autista che disperato derapava smanettando con tutte le forze sulla leva del distributore pneumatico, il convoglio lambì il ciglio della strada dove, in corrispondenza della fermata, s’erano accalcati gli ultimi beneficiari di quella corsa, i quali prima rincularono per evitare d’essere investiti, poi inveirono e sbracciarono contro conducente e passeggeri, che pure dovevano avere avuto l’aria, al di là dei finestrini, di chi non riuscisse a trattenere gli occhi nelle orbite.
Il tram proseguì la sua corsa impazzita, prendendo ancora maggiore velocità lungo la via che volgeva a declivio e puntava dritta dritta verso l’ingresso dell’ufficio postale.
Quando il tram si palesò, come una furia incontrollata e incombente, alla vista degli astanti davanti alle porte dello sportello postale, ché mancavano cinque minuti esatti alla sua apertura, questi strabuzzarono a loro volta gli occhi, increduli, e fecero appena in tempo ad allontanarsi prima che il mostro metallico senza briglie potesse piombargli addosso.
Altrettanto non poté l’edificio, che fu centrato in pieno, nei suoi occhi di vetro ancora sbarrati, e ne scaturì un boato tanto grande da destare chi ancora, lì nei pressi, non aveva messo il naso fuori dalle coperte. Così la corsa del tram, sfondata la facciata frontale dello stabile, si arrestò contro il bancone della riscossione delle pensioni. Gli anziani passeggeri, che a stento si erano aggrappati fino ad allora agli appositi corrimano, furono sbalzati tutti dai loro posti: una vecchia signora, supina sul pavimento del tram, strillava e agitava convulsamente le gambette anchilosate, insaccate nelle calze smagliate; un vecchietto avvizzito aveva compiuto una capriola su se stesso e s’era ritrovato seduto sul sedile davanti al suo; una coppia di ultraottantenni ancora innamorati era rimasta saldamente legata attraverso la stretta delle mani e aveva gomitolato, come un’unica pallottola, per tutto il corridoio centrale, dagli ultimi posti in fondo alla carrozza fino alla postazione del conducente.
E proprio il conducente, che s’era rialzato con uno squarcio sanguinante sulla fronte, e s’era rassettato in fretta la divisa tutta sdrucita, aveva infine dichiarato, trionfante, che, sì, dopotutto aveva comunque fatto il suo dovere: aveva condotto i suoi passeggeri a destinazione! niente meno che dentro l’ufficio postale! e in perfetto orario!